Regeni, l’allarme dei servizi era partito la notte del sequestro
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IL CAIRO «Sono venuti qui due o tre giorni prima che quel ragazzo sparisse. Non hanno cercato lui. Io non c’ero, ma hanno chiesto documenti, hanno guardato in giro. Sembravano poliziotti. Ma state attenti». Al piano di sotto dell’appartamento scrostato dove viveva Giulio Regeni un impiegato di un’agenzia di comunicazioni aggiunge un elemento al mistero che avvolge il prima e il dopo la scomparsa del ventottenne. Circolano voci. C’è chi parla di un testimone che avrebbe visto catturare Giulio sotto casa. Ma ancora nessuna certezza. Gli investigatori egiziani non cambiano linea. Avevano detto «un rapinatore». Comunque criminalità comune. Mentre gli attivisti dei diritti umani parlano di omicidio politico. E Mona Seif, sorella di un blogger arrestato, denuncia su Facebook: «Il detective incaricato del caso ha avuto una condanna a un anno (poi sospesa), dalla corte criminale di Alessandria per aver torturato fino alla morte un uomo».
Di prove certe, alla nostra squadra investigativa al Cairo, non ne vengono date. E loro, dopo sopralluoghi e interrogatori, non ne trovano della «rapina». Cercano invece la chiave delle torture subite dal ricercatore della Cambridge University, nelle riunioni del sindacato dissidente con il regime di Al Sisi, da lui frequentate. In particolare una: quella dell’11 gennaio, a inviti, in cui Giulio, già «attenzionato» dai servizi egiziani, attirò su di sé la curiosità, se non altro perché straniero e introdotto in quell’ambiente. Una curiosità che potrebbe aver contagiato, dopo una delazione, anche chi teme complotti e li reprime, sempre più spesso, con rapimenti, arresti, pestaggi e a volte la morte.
Così, mentre aumenta il pressing internazionale su Al Sisi, affinché si giunga alla verità — lo ha chiesto ancora ieri, il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni — ci si chiede: ma Giulio poteva essere sottratto prima alle mani dei suoi aguzzini? Ci sono stati ritardi o leggerezze nel lanciare l’allarme?
A leggere le comunicazioni di quei giorni tra l’ambasciata italiana al Cairo e gli apparati di sicurezza, si vede che la ricerca di Giulio venne richiesta ai nostri servizi segreti al Cairo. Le controparti locali però risposero che non avevano alcuna informazione. Quindici ore e mezza dopo, venne inviata una nota ufficiale di allarme al governo. Una sequenza che toglie ogni alibi a chi doveva davvero cercarlo, ma non l’ha saputo o voluto trovare. E smentisce il ministro dell’Interno egiziano che dice di aver ricevuto la segnalazione solo il 28.
Chi mente? La tempistica è documentata. Gennaro Gervasio, l’amico che aveva un appuntamento con Giulio, al quale il ricercatore non è mai arrivato, perde le sue tracce intorno alle 20.30 del 25. Tre ore dopo, alle 23.30 chiama sul telefonino l’ambasciatore Massari, che conosce, e lancia l’allarme, fornendo dati e numero di telefono di Giulio. Pochi minuti dopo la segnalazione, l’ambasciata avverte i responsabili dei nostri servizi sul posto. E li sollecita nuovamente la mattina successiva. I canali dell’intelligence fanno sapere di aver compiuto verifiche. E di aver ricevuto comunicazione dalle controparti che non hanno trovato notizie di Giulio.
Alle 15 del 26 gennaio, quando mancano ancora 9 ore al tempo richiesto dalla legge per poter denunciare una scomparsa, l’ambasciata manda una nota ufficiale al ministero degli Esteri egiziano (e in copia a quello dell’Interno e all’intelligence) chiedendo ogni investigazione necessaria a rintracciarlo. Intorno a mezzanotte un funzionario dell’ambasciata, assieme a Gennaro Gervasio, sporge formale denuncia al commissariato di Dokki.
Nel corso della giornata del 27, l’ambasciatore contatta ancora gli interlocutori al ministero degli Esteri e dell’Interno, il cui ministro Ghaffar, malgrado le richieste, non rende disponibile a un appuntamento. Una procedura già utilizzata tre mesi fa quando venne arrestato un ragazzo, perché gay. Si arriva così al 28. Giulio verrà «ritrovato» solo il 3 febbraio, solo l’autopsia dirà da quanto tempo era stato ucciso.
Virginia Piccolillo
Di prove certe, alla nostra squadra investigativa al Cairo, non ne vengono date. E loro, dopo sopralluoghi e interrogatori, non ne trovano della «rapina». Cercano invece la chiave delle torture subite dal ricercatore della Cambridge University, nelle riunioni del sindacato dissidente con il regime di Al Sisi, da lui frequentate. In particolare una: quella dell’11 gennaio, a inviti, in cui Giulio, già «attenzionato» dai servizi egiziani, attirò su di sé la curiosità, se non altro perché straniero e introdotto in quell’ambiente. Una curiosità che potrebbe aver contagiato, dopo una delazione, anche chi teme complotti e li reprime, sempre più spesso, con rapimenti, arresti, pestaggi e a volte la morte.
Così, mentre aumenta il pressing internazionale su Al Sisi, affinché si giunga alla verità — lo ha chiesto ancora ieri, il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni — ci si chiede: ma Giulio poteva essere sottratto prima alle mani dei suoi aguzzini? Ci sono stati ritardi o leggerezze nel lanciare l’allarme?
A leggere le comunicazioni di quei giorni tra l’ambasciata italiana al Cairo e gli apparati di sicurezza, si vede che la ricerca di Giulio venne richiesta ai nostri servizi segreti al Cairo. Le controparti locali però risposero che non avevano alcuna informazione. Quindici ore e mezza dopo, venne inviata una nota ufficiale di allarme al governo. Una sequenza che toglie ogni alibi a chi doveva davvero cercarlo, ma non l’ha saputo o voluto trovare. E smentisce il ministro dell’Interno egiziano che dice di aver ricevuto la segnalazione solo il 28.
Chi mente? La tempistica è documentata. Gennaro Gervasio, l’amico che aveva un appuntamento con Giulio, al quale il ricercatore non è mai arrivato, perde le sue tracce intorno alle 20.30 del 25. Tre ore dopo, alle 23.30 chiama sul telefonino l’ambasciatore Massari, che conosce, e lancia l’allarme, fornendo dati e numero di telefono di Giulio. Pochi minuti dopo la segnalazione, l’ambasciata avverte i responsabili dei nostri servizi sul posto. E li sollecita nuovamente la mattina successiva. I canali dell’intelligence fanno sapere di aver compiuto verifiche. E di aver ricevuto comunicazione dalle controparti che non hanno trovato notizie di Giulio.
Alle 15 del 26 gennaio, quando mancano ancora 9 ore al tempo richiesto dalla legge per poter denunciare una scomparsa, l’ambasciata manda una nota ufficiale al ministero degli Esteri egiziano (e in copia a quello dell’Interno e all’intelligence) chiedendo ogni investigazione necessaria a rintracciarlo. Intorno a mezzanotte un funzionario dell’ambasciata, assieme a Gennaro Gervasio, sporge formale denuncia al commissariato di Dokki.
Nel corso della giornata del 27, l’ambasciatore contatta ancora gli interlocutori al ministero degli Esteri e dell’Interno, il cui ministro Ghaffar, malgrado le richieste, non rende disponibile a un appuntamento. Una procedura già utilizzata tre mesi fa quando venne arrestato un ragazzo, perché gay. Si arriva così al 28. Giulio verrà «ritrovato» solo il 3 febbraio, solo l’autopsia dirà da quanto tempo era stato ucciso.
Virginia Piccolillo
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