Azionisti in fuga e crediti a rischio le banche Ue ritornano fragili
«POSSIAMO pagare». Nel mondo normale, quando un creditore sente queste parole, tira un sospiro di sollievo.
NELLA grande finanza, invece, scatta l’allarme rosso. Tutti si ricordano che la stessa cosa la dissero Bear Stearns e Lehman Brothers, le due banche americane, pochi giorni prima di fare crac e dare il via alla grande crisi del 2008. Così, quando John Cryan, boss di una delle più grandi banche europee, Deutsche Bank, sente il bisogno, lunedì a tarda sera, di far sapere, anche se nessuno glielo ha chiesto, che è in grado di pagare gli interessi su alcuni sofisticati titoli che scadono ad aprile, il nervosismo a 360 gradi dei mercati, invece di diminuire, aumenta. Chi evoca paralleli con il 2008, per ora, agita solo fantasmi. Ma i titoli della banca tedesca e di una buona fetta delle banche europee, ieri, sono scesi ancora a picco. Iniziata davanti al rallentamento dell’economia cinese, alimentata dalla caduta senza fine del prezzo della materia prima per eccellenza, il petrolio, la crisi che monta da questo autunno dietro le quinte dell’economia mondiale è arrivata dove fa più male: fra le banche. Due dei maggiori istituti europei, la stessa Deutsche Bank e Crédit Suisse hanno chiuso i conti in rosso, l’anno scorso, per la prima volta dal 2008.
La leva iniziale ha a che fare più con il petrolio che con le banche. Metà dei petrodollari ammassati, in questi anni, dai fondi sovrani dell’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo Persico, erano investiti in titoli di società finanziarie. Quando i fondi hanno cominciato discretamente a liquidare i loro portafogli, a caccia di risorse per rinsaldare, a casa, i bilanci falcidiati dal crollo del petrolio, le quotazioni dei titoli bancari ne hanno immediatamente risentito. Ma, nel caso delle banche, i soldi della capitalizzazione in Borsa sono uno dei capisaldi del cuscino di garanzia rispetto agli investimenti effettuati. I mercati, vedendo scendere le quotazioni, hanno cominciato a interrogarsi sulla solidità dei bilanci, soffocati dalla mole dei crediti inesigibili. Il problema è particolarmente acuto in Italia, dove i prestiti inaciditi sono il 17 per cento del totale. Ma riguarda tutti: ci sono oltre mille miliardi di euro di prestiti andati a male nei libri contabili delle banche europee. Diffidenti, gli investitori scappano. A testimoniare la fuga c’è la discesa delle quotazioni in Borsa, ma anche due altri indicatori, forse più inquietanti. Il primo sono i cosiddetti Coco, in pratica delle obbligazioni che però, in caso di crisi della banca emittente, si trasformano automaticamente in azioni. Nonostante i rendimenti appetitosi (anche al 7 per cento) l’idea di ritrovarsi a tappare i buchi di un salvataggio sembra, evidentemente, di colpo troppo pericolosa. I Coco di Deutsche Bank, Unicredit, Santander sono scesi al 75-80 per cento del valore nominale: chi li ha, cerca di venderli. In parallelo, crescono i prezzi dei Cds, le polizze che assicurano contro un ipotetico default: garantirsi la restituzione, in caso di crac, di 10 milioni di dollari di obbligazioni Deutsche Bank costava 100 mila dollari l’anno il primo gennaio. Cinque settimane dopo, la polizza è salita a 250 mila dollari, più o meno il livello di Unicredit.
Dietro questi smottamenti, non c’è solo il problema dei debiti ufficialmente incagliati, una quantità tutto sommato nota. Ci sono i dubbi sulla qualità degli investimenti, in derivati o meno. Un problema che le banche italiane hanno meno di altre. Il gigante Deutsche Bank, ad esempio, in questo momento sotto i riflettori, è anche la banca forse più esposta al mondo nel settore delle materie prime, petrolio in testa, un mercato oggi in via di implosione. Ed è fra i grandi creditori di un altro gigante barcollante: Volkswagen. Quanti investimenti sono registrati nei libri della Deutsche Bank ad un valore superiore a quello che sarebbe possibile realizzare sul mercato, si chiedono molti operatori? È il tarlo che, in questo momento, rode le fondamenta di una delle più grandi banche europee, una di quelle “troppo grandi per fallire”: i soldi investiti dalla banca di Francoforte assommano a 2 mila miliardi di euro. Uguale a mezzo prodotto interno lordo tedesco.
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