Il caso «Libertà per Jacqueline » Uccise il marito violento, ora la Francia vuole salvarla

Il caso «Libertà per Jacqueline » Uccise il marito violento, ora la Francia vuole salvarla

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PARIGI Secondo la ricostruzione del processo, alle 13 e 30 del 10 settembre 2012, nella villetta di La Selle sur le Bied, paesino di 1.000 abitanti a un’ora d’auto da Parigi, Jacqueline Sauvage finisce di lavare i piatti, esausta. Ha passato la mattina a sopportare i soliti insulti del marito Norbert Marot, stavolta perché il loro figlio Pascal non vuole più lavorare nell’azienda di trasporti di famiglia. Pascal non risponde al telefono, si è ucciso e lo troveranno impiccato nel suo appartamento qualche ore dopo. La madre non lo sa ancora, prende dei sonniferi e cerca di dormire.
Il marito la picchia da oltre quarant’anni, lei è andata più volte al pronto soccorso ma non ha mai trovato il coraggio di sporgere denuncia. Teme per le tre figlie Sylvie, Carole e Fabienne, e per Pascal, anche loro regolarmente picchiati e minacciati con il fucile da caccia. Le figlie racconteranno poi al processo di essere state violentate dal padre, più volte, a partire dall’adolescenza.
Verso sera il marito torna a casa, trova la donna chiusa in camera, spacca la maniglia, è furibondo perché la cena non è ancora pronta. «Mi si è gettato addosso — ha testimoniato la donna in aula — e ha urlato ”Alzati, buona a nulla, vai a preparare la minestra!”». Norbert Marot la riempie di calci e pugni, le strappa la catenina che ha al collo, le spacca il labbro inferiore, poi si versa del whisky e va a berlo in terrazza. «In quel momento ho avuto come un lampo, ho preso il fucile in camera, l’ho caricato. Lui era seduto in terrazza, di spalle. Mi sono avvicinata. Ho sparato e sparato, fermando gli occhi. Ho esitato, per il terzo colpo». L’uomo muore quasi all’istante, alle 19 e 20 lei chiama i gendarmi: «Ho ammazzato mio marito».
Nel dicembre scorso Jacqueline Sauvage, 67 anni, ha visto confermata la condanna a 10 anni di carcere nel processo di appello per omicidio volontario. I giudici hanno stimato che non si potesse invocare la legittima difesa: la reazione è stata in effetti proporzionale, ma non concomitante alla violenza del marito, colpito di spalle e quando ormai l’assalto era terminato. Jacqueline ha passato 47 anni nella prigione della casa coniugale. Ne è uscita solo per entrare nel carcere di Orléans.
Ieri centinaia di persone hanno manifestato per lei in piazza della Bastiglia, a Parigi, e in altre città della Francia. Dopo la condanna in appello il quotidiano Libération le ha dedicato la copertina con la scritta a tutta pagina «Liberate Jacqueline Sauvage» e la petizione online per sostenere la domanda di grazia presidenziale ha ormai raccolto 312 mila firme.
La lettera a François Hollande è stata firmata dalle tre figlie: «Signor presidente, nostra madre ha sofferto durante tutta la sua vita di coppia, vittima del potere di nostro padre, uomo violento, tirannico, perverso e incestuoso».
Le associazioni femministe si sono mobilitate. «Manifestiamo contro una giuria che mostra di non avere capito nulla del potere di controllo che i carnefici sono capaci di esercitare sulle loro vittime, e che ha emesso una sentenza di tipo tecnico, valutando in senso restrittivo la nozione di legittima difesa», ha spiegato Suzie Rojtman, portavoce del «Collettivo nazionale per i diritti delle donne».
Gli avvocati di Jacqueline Sauvage sottolineano poi come manchi il rischio di una ripetizione del reato: la donna ha sparato al marito dopo decenni di violenze, e non può ucciderlo un’altra volta. Perché allora tenerla in prigione? Una pena si infligge anche per punire il condannato, ma lei non ha già pagato abbastanza?
La battaglia per Jacqueline Sauvage vuole ottenere la sua liberazione, e anche denunciare la cecità di vicini di casa, famigliari, assistenti sociali, infermieri del pronto soccorso. Una catena di indifferenza corresponsabile delle oltre 130 donne uccise ogni anno dai loro uomini in Francia, e delle 600 mila vittime di violenze coniugali.
Stefano Montefiori


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