Istanbul colpita al cuore un kamikaze fa strage uccisi dieci turisti otto erano tedeschi
ORA, NELLA notte, c’è solo silenzio. E poliziotti al lavoro in tuta bianca e copriscarpe azzurri per rilievi che compiono chinandosi a terra, misurando distanze, parlandosi sottovoce dopo che anche il corpo dell’ultimo turista tedesco è stato rimosso. Ma a Piazza Sultanahmet, nel quadrilatero che i viaggiatori di ogni parte del mondo conoscono, fra la Moschea blu, la basilica di Santa Sofia, il Topkapi e la Cisterna, i jihadisti hanno lasciato per terra una macchia scura. Nessuno riesce a lavarla. Colpendo al cuore l’unica città al mondo che si estende su due continenti, cerniera fra Asia e Europa, hanno voluto spezzare l’ultimo lembo di dialogo che adesso sarà difficile ricostruire.
Come sempre Tayyip Erdogan, l’uomo forte della Turchia, voce tonante e ciglio asciutto, lancia accuse all’esterno. L’altro ieri lo faceva contro i militari, contro i curdi, poi gli alleati islamisti, la finanza mondiale e i media internazionali. Oggi allunga la lista al terrorismo e agli “intellettuali stupidi”. Ma per molti osservatori indipendenti è proprio l’ambiguità mostrata dal suo governo con il Califfato nero, durata quasi tre anni e giocata sul filo di un’acquiescenza criticata da molti, a essere considerata come la causa reale dell’attentato nel centro di Istanbul. Dove l’accordo raggiunto con Angela Merkel e con un’Europa convinta infine a concedere all’alleato turco tre miliardi euro in cambio della lotta al terrorismo e dell’aiuto nel controllare frontiere sempre più porose per lo sbarco di profughi e per l’attraversamento di terroristi, non ha salvato i turisti tedeschi. Solo lo scorso anno sono stati 5 milioni e mezzo dalla Germania. Il prevedibile crollo del turismo, adesso, e le difficoltà dell’economia turca faranno riconsiderare a molti l’affidabilità del loro Presidente.
Tutti i 10 morti sono stranieri e ben 8 quelli tedeschi saltati in aria con l’attentatore, un kamikaze saudita di origine siriana che il premier Ahmet Davutoglu ha spiegato essersi arruolato nel cosiddetto Califfato islamico (secondo alcune fonti, si sarebbe registrato come rifugiato). Alle 10,20 ora locale (le 9,20 in Italia), Piazza Sultanahmet per fortuna non era zeppa di turisti come d’estate. Il freddo incombente in questa stagione in Turchia ha contribuito a tenere molti visitatori lontani. Gruppi di autobus stazionavano comunque davanti alla Moschea blu. Ed è qui, nel piazzale antistante, colmo di giardini fioriti e di fontane, nei pressi dell’obelisco di Teodosio, che l’attentatore si è fatto esplodere.
Una deflagrazione tanto potente da essere percepita fino nella parte asiatica. «La terra ha tremato e c’era un odore pesante che mi ha bruciato le narici», ha raccontato una turista tedesca. «Abbiamo sentito un boato fortissimo — dice Turgut, il portiere di uno degli alberghi nella zona, tantissimi ormai e quasi sempre di ottimo livello visto il copioso giro di affari — ma dobbiamo avere paura qui: sia per il nostro lavoro, perché le gente ha subito disdetto molte prenotazioni; sia per la Turchia, ora al centro di giochi che passano sopra le teste di noi cittadini». A guardarli bene negli occhi, i turchi oggi hanno volti affranti: visi impauriti, e pensieri che si immaginano incapaci di immaginare un futuro di pace, stretti come sono fra la minaccia terrorista, la guerra curda riscoppiata in Anatolia, le tensioni con la Russia, e un braccio di ferro irrisolto con l’Europa.
Passa una manciata di ore, e Erdogan compare alla tv. Ne ha per tutti. «La Turchia continuerà a lottare sino a quando le organizzazioni terroristiche non saranno totalmente annientate. Il problema oggi è il terrorismo, non la questione curda. Dobbiamo dirlo al mondo. Sono stupidi gli intellettuali che imputano al governo di aver compiuto qualche tipo di strage. Il governo conosce come il palmo delle sue mani il Sud-Est dell’Anatolia, mentre loro non lo conoscono e non sanno neppure il nome delle strade». Sotto tiro gli intellettuali, gli scrittori, gli accademici, come il sociologo americano Noam Chomsky: tutti colpevoli di criticare l’operato del governo: «Queste persone devono scegliere se stare dalla mia parte o dalla parte dei terroristi». E poi accuse a Russia e Mosca, «che vogliono espandere la loro area di influenza in Siria».
Metà Turchia applaude Erdogan. Lo dimostrano le elezioni stravinte lo scorso novembre, quando ne è uscito premiato con oltre il 49 per cento dei voti, perché considerato l’uomo della stabilità. L’altra metà letteralmente lo odia, giudicando come irresponsabile il suo obiettivo di polarizzare il Paese, mettendo in un angolo avversari politici, magistratura e media, licenziando e facendo arrestare i giornalisti per i loro scoop antigovernativi. In serata la sua polizia scate- na la caccia ai terroristi, e arresta nella capitale Ankara 16 sospetti jihadisti.
Ma questo è un Paese che vive ormai nella paura del terrorismo, alla media di un attacco ogni due mesi. A giugno a Diyarbakir 6 morti, poi a Suruc i 32 giovani che volevano ricostruire la biblioteca della città siriana di Kobane, quindi il 10 ottobre le 102 vittime curde ad Ankara poco prima delle elezioni. Ora l’attacco più duro per l’immagine del Paese. Con un governo che sull’esplosione di Piazza Sultanahmet impone il silenzio stampa, vietando, decreta il tribunale di Istanbul, «tutti i tipi di notizie, interviste, critiche e pubblicazioni simili sulla carta stampata, le televisioni, i social media e tutti gli altri tipi di mezzi di informazione su Internet».
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