Chi riempie le casse del Califfo milionario
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Il capo era un libanese nato e residente in Kuwait, Osama Khayyat. Sin dalla nascita del Califfato — secondo le ricostruzioni dei giornali locali Al Bayan e Al Jareeda — la sua «cellula» aveva fornito appoggio logistico e finanziario all’Isis.
Acquistava in Ucraina le armi, inclusi missili FN-6 — come ha confessato lo stesso Khayyat dopo l’arresto un mese fa — ed effettuava i pagamenti attraverso società kuwaitiane, spedendo poi il bottino in Siria via Turchia o Iraq. Ogni mese trasferiva milioni di dollari per il Califfato su conti all’estero tramite Emirati e Turchia. Secondo il verbale delle indagini, la sua cellula aveva fatto arrivare all’Isis anche tute e maschere anti-gas, reperite legalmente in Kuwait, acquistandole da operai e aziende chimiche nel corso di sei mesi. Servivano per un piano preciso? «Non lo sappiamo — hanno dichiarato gli arrestati negli interrogatori —. Gli ordini dell’organizzazione si eseguono senza discutere».
Insieme al capo, sono stati presi cinque membri della rete: tre siriani, un egiziano e un kuwaitiano. Altri quattro sono ricercati dall’Interpol: i fratelli australiani di origini libanesi Hisham e Rabie Dhahab e i fratelli siriani Waleed Nassef e Mohammed Tartari, l’uno con il conveniente impiego di bancario a Orfa in Turchia, l’altro responsabile finanziario della cellula.
Il Kuwait è stato sin dall’inizio della guerra in Siria un crocevia dei finanziamenti per i gruppi jihadisti, per via del suo sistema bancario non «tracciabile». Ogni volta che emerge un nuovo nome di finanziatori del jihad (non necessariamente dell’Isis ma anche di gruppi come Jabhat al Nusra, legato ad Al Qaeda), gli americani chiedono soprattutto a Kuwait e Qatar — alleati nella «guerra al terrore» — di applicare una maggiore trasparenza ai trasferimenti di denaro, finora senza successo. È importante però notare che, a differenza di Al Qaeda e di altri gruppi, l’Isis ha saputo diversificare le fonti di introito, anche per restare «indipendente» rispetto ai donatori: i finanziamenti dal Golfo sono una piccola parte delle entrate (accanto a petrolio, tasse, confische, traffico di antichità, furti in banca e riscatti), l’8 per cento circa su 80 milioni di dollari che mensilmente finiscono nelle casse del Califfato, dice al Corriere Ludovico Carlino, analista di «IHS Jane’s» e autore di un rapporto sui finanziamenti del gruppo. Una piccola parte, ma assai pericolosa, visti missili e tute chimiche procurati dalla cellula in Kuwait.
I finanziatori sono spesso uomini d’affari ricchissimi e predicatori religiosi di posizioni estremiste — nell’ordine sauditi, kuwaitiani, qatarini, in qualche caso emiratini, secondo il centro studi strategici di Bagdad e alcuni esperti internazionali. Anche il sito saudita Al Wata n afferma che i privati del Regno sono al primo posto nel fare affluire soldi nelle casse dell’Isis. Benché Paesi come il Qatar appoggino altri gruppi jihadisti, in particolare Al Nusra, ciò non significa che singole moschee o privati con idee diverse non possano finanziare il Califfato, sottolinea Carlino.
Spesso i media di Paesi rivali nella regione si lanciano accuse reciproche. Il Centro studi strategici di Al Ahram in Egitto e il quotidiano Al Khaleej degli Emirati puntano il dito contro il Qatar, mentre siti libanesi vicini al regime di Damasco accusano l’intelligence saudita. Pochi giorni fa, l’Emiro Hassan di Giordania ha detto alla TV France24 : «Se non sono i Paesi del Golfo a finanziare Daesh, chi sarebbe a farlo?». I nomi dei finanziatori sono raramente resi pubblici, tranne che nelle liste delle sanzioni del dipartimento del Tesoro Usa. Sono piuttosto chiari però i meccanismi attraverso cui avvengono le «donazioni». «Si tratta di somme molto alte, dell’ordine di dieci milioni di dollari al mese — afferma il sito iracheno Annabà citando il centro studi di Bagdad — e vengono trasferite tramite società legali in Paesi europei e nei paradisi fiscali. Molti di questi conti hanno coperto l’acquisto di armamenti e attrezzature, comprati in modo legale, poi spediti a società di copertura in Turchia e infine trasferiti in Siria e Iraq».
Spesso la raccolta di fondi avviene nelle moschee alla conclusione delle preghiere collettive, ed è gestita da opere di carità e organizzazioni non governative regolarmente registrate e attive in molti paesi poveri. Lo slogan: «Sostenere i fratelli musulmani che combattono contro lo straniero e contro i nemici della fede». La motivazione di molti finanziatori, infatti, è contrastare l’influenza dell’Iran nella regione, come ha detto al Corriere in un’intervista all’ultimo piano del suo grattacielo il miliardario kuwaitiano ed ex parlamentare salafita Khaled Salman. «Non vedete come gli sciiti uccidono i bambini sunniti in Siria?». Per far arrivare i soldi a destinazione, a volte si usa il sistema bancario: conti correnti creati usando un prestanome o società turche di comodo (sistema già usato per il riciclaggio di denaro sporco e per evadere le tasse, che si rivela ora funzionale per il Califfato e i suoi collaboratori turchi). Oppure tramite agenzie di cambio: «Basta una password per ritirare il denaro, il codice si può ricevere anche via WhatsApp», spiega Carlino. O meglio ancora, in contanti: i corrieri vanno direttamente in Siria col denaro, o lo «spostano senza spostarlo» col sistema dell’ hawala (scambi basati sulla fiducia che non lasciano traccia: qualcuno consegna una cifra in un luogo, e viene compensata parallelamente a qualcun altro altrove).
Una risoluzione Onu ha appena chiesto ai singoli Paesi di fare di più per combattere ogni forma di finanziamento all’Isis. In Kuwait si annuncia una legge per controllare la raccolta di fondi e della zakat (la tassa islamica) sia nelle aziende private che nelle moschee; ma è un annuncio già fatto in passato che finora non ha portato a nulla.
In Arabia Saudita lo scorso giugno sono state approvate norme più restrittive: vietato aprire conti per raccogliere fondi senza un’autorizzazione scritta governativa. Chiunque lo faccia «sarà perseguito penalmente, saranno confiscate le somme raccolte e messe sotto sequestro giudiziario tutte le sue proprietà». Nei primi otto mesi del 2015 sono stati congelati i depositi e sequestrati i patrimoni di individui e associazioni che avevano raccolto 34 milioni di dollari per l’Isis (nelle confische la città di Riad è al primo posto).
Ma un problema oggettivo sta nel fatto che, nonostante i controlli più severi sui trasferimenti bancari, è sempre possibile usare l’ hawala . «Siamo abituati a pensare al denaro come qualcosa che si muove virtualmente — spiega Carlino — ma se si muove in contanti non hai la possibilità di fermarlo».
Insieme al capo, sono stati presi cinque membri della rete: tre siriani, un egiziano e un kuwaitiano. Altri quattro sono ricercati dall’Interpol: i fratelli australiani di origini libanesi Hisham e Rabie Dhahab e i fratelli siriani Waleed Nassef e Mohammed Tartari, l’uno con il conveniente impiego di bancario a Orfa in Turchia, l’altro responsabile finanziario della cellula.
Il Kuwait è stato sin dall’inizio della guerra in Siria un crocevia dei finanziamenti per i gruppi jihadisti, per via del suo sistema bancario non «tracciabile». Ogni volta che emerge un nuovo nome di finanziatori del jihad (non necessariamente dell’Isis ma anche di gruppi come Jabhat al Nusra, legato ad Al Qaeda), gli americani chiedono soprattutto a Kuwait e Qatar — alleati nella «guerra al terrore» — di applicare una maggiore trasparenza ai trasferimenti di denaro, finora senza successo. È importante però notare che, a differenza di Al Qaeda e di altri gruppi, l’Isis ha saputo diversificare le fonti di introito, anche per restare «indipendente» rispetto ai donatori: i finanziamenti dal Golfo sono una piccola parte delle entrate (accanto a petrolio, tasse, confische, traffico di antichità, furti in banca e riscatti), l’8 per cento circa su 80 milioni di dollari che mensilmente finiscono nelle casse del Califfato, dice al Corriere Ludovico Carlino, analista di «IHS Jane’s» e autore di un rapporto sui finanziamenti del gruppo. Una piccola parte, ma assai pericolosa, visti missili e tute chimiche procurati dalla cellula in Kuwait.
I finanziatori sono spesso uomini d’affari ricchissimi e predicatori religiosi di posizioni estremiste — nell’ordine sauditi, kuwaitiani, qatarini, in qualche caso emiratini, secondo il centro studi strategici di Bagdad e alcuni esperti internazionali. Anche il sito saudita Al Wata n afferma che i privati del Regno sono al primo posto nel fare affluire soldi nelle casse dell’Isis. Benché Paesi come il Qatar appoggino altri gruppi jihadisti, in particolare Al Nusra, ciò non significa che singole moschee o privati con idee diverse non possano finanziare il Califfato, sottolinea Carlino.
Spesso i media di Paesi rivali nella regione si lanciano accuse reciproche. Il Centro studi strategici di Al Ahram in Egitto e il quotidiano Al Khaleej degli Emirati puntano il dito contro il Qatar, mentre siti libanesi vicini al regime di Damasco accusano l’intelligence saudita. Pochi giorni fa, l’Emiro Hassan di Giordania ha detto alla TV France24 : «Se non sono i Paesi del Golfo a finanziare Daesh, chi sarebbe a farlo?». I nomi dei finanziatori sono raramente resi pubblici, tranne che nelle liste delle sanzioni del dipartimento del Tesoro Usa. Sono piuttosto chiari però i meccanismi attraverso cui avvengono le «donazioni». «Si tratta di somme molto alte, dell’ordine di dieci milioni di dollari al mese — afferma il sito iracheno Annabà citando il centro studi di Bagdad — e vengono trasferite tramite società legali in Paesi europei e nei paradisi fiscali. Molti di questi conti hanno coperto l’acquisto di armamenti e attrezzature, comprati in modo legale, poi spediti a società di copertura in Turchia e infine trasferiti in Siria e Iraq».
Spesso la raccolta di fondi avviene nelle moschee alla conclusione delle preghiere collettive, ed è gestita da opere di carità e organizzazioni non governative regolarmente registrate e attive in molti paesi poveri. Lo slogan: «Sostenere i fratelli musulmani che combattono contro lo straniero e contro i nemici della fede». La motivazione di molti finanziatori, infatti, è contrastare l’influenza dell’Iran nella regione, come ha detto al Corriere in un’intervista all’ultimo piano del suo grattacielo il miliardario kuwaitiano ed ex parlamentare salafita Khaled Salman. «Non vedete come gli sciiti uccidono i bambini sunniti in Siria?». Per far arrivare i soldi a destinazione, a volte si usa il sistema bancario: conti correnti creati usando un prestanome o società turche di comodo (sistema già usato per il riciclaggio di denaro sporco e per evadere le tasse, che si rivela ora funzionale per il Califfato e i suoi collaboratori turchi). Oppure tramite agenzie di cambio: «Basta una password per ritirare il denaro, il codice si può ricevere anche via WhatsApp», spiega Carlino. O meglio ancora, in contanti: i corrieri vanno direttamente in Siria col denaro, o lo «spostano senza spostarlo» col sistema dell’ hawala (scambi basati sulla fiducia che non lasciano traccia: qualcuno consegna una cifra in un luogo, e viene compensata parallelamente a qualcun altro altrove).
Una risoluzione Onu ha appena chiesto ai singoli Paesi di fare di più per combattere ogni forma di finanziamento all’Isis. In Kuwait si annuncia una legge per controllare la raccolta di fondi e della zakat (la tassa islamica) sia nelle aziende private che nelle moschee; ma è un annuncio già fatto in passato che finora non ha portato a nulla.
In Arabia Saudita lo scorso giugno sono state approvate norme più restrittive: vietato aprire conti per raccogliere fondi senza un’autorizzazione scritta governativa. Chiunque lo faccia «sarà perseguito penalmente, saranno confiscate le somme raccolte e messe sotto sequestro giudiziario tutte le sue proprietà». Nei primi otto mesi del 2015 sono stati congelati i depositi e sequestrati i patrimoni di individui e associazioni che avevano raccolto 34 milioni di dollari per l’Isis (nelle confische la città di Riad è al primo posto).
Ma un problema oggettivo sta nel fatto che, nonostante i controlli più severi sui trasferimenti bancari, è sempre possibile usare l’ hawala . «Siamo abituati a pensare al denaro come qualcosa che si muove virtualmente — spiega Carlino — ma se si muove in contanti non hai la possibilità di fermarlo».
Viviana Mazza
(Ha collaborato Farid Adly)
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