Le stragi di bambini sulla rotta dei gommoni

Le stragi di bambini sulla rotta dei gommoni

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Per sfuggire ai controlli salpano di notte, stipati su gommoni vecchi e inaffidabili, certamente inadatti a percorrere il tratto di mare tra Turchia e Grecia. È la rotta scelta dalle famiglie in fuga dalla guerra: migliaia di persone, tantissime donne con bambini che attendono anche settimane pur di trovare il «passaggio» per la libertà. Siriani, ma anche afghani, bengalesi. Pagano tra i 1.000 e i 1.400 euro a testa, per viaggi in cui sono spesso mandati alla deriva. Secondo la Fondazione Migrantes nel 2015 sono stati 700 i bambini morti, solo ieri ne sono morti altri 6. Oggi l’Ue ha convocato un vertice d’urgenza per salvare la conquista di Schengen dopo la riapertura delle frontiere da parte di Svezia e Danimarca.

Accettano di imbarcarsi su qualsiasi mezzo pur di raggiungere l’Europa. E per sfuggire ai controlli salpano di notte, stipati su gommoni vecchi e inaffidabili, certamente inadatti a percorrere il tratto di mare tra Turchia e Grecia. È la rotta scelta dalle famiglie in fuga dalla guerra: migliaia di persone, tantissime donne con bambini che attendono anche settimane pur di trovare il «passaggio» per la libertà. Siriani, ma anche afghani, bengalesi. Pagano tra i 1.000 e i 1.400 euro a testa, ma proprio come avviene in Libia quando le condizioni del mare diventano proibitive, gli scafisti sono disposti a dimezzare la cifra pur di riempire le imbarcazioni. E poi affidano la guida a uno degli uomini, mandandoli spesso alla deriva.
La rotta
dei gommoni
Nel settembre scorso la foto di Aylan, il bimbo siriano di tre anni riverso sulla spiaggia di Bodrum dopo il naufragio del gommone dove si trovava con i genitori e altre decine di persone, fece il giro del mondo suscitando sdegno. Le autorità turche e greche promisero maggiori controlli, lo stesso fece l’Unione Europea. Da allora poco o nulla è cambiato. Sono i numeri forniti dall’Alto commissariato per i rifugiati a fornire la dimensione della tragedia: tra il primo gennaio e la fine di ottobre dello scorso anno 202 persone sono morte o scomparse nelle acque greche, 159 in quelle turche. Secondo la Fondazione Migrantes nel 2015 le vittime nel Mediterraneo sono raddoppiate rispetto al 2014: da 1.600 a oltre 3.200. Tra loro ci sono stati 700 bambini morti.
Agli inizi dell’anno anche l’Italia era diventata punto di approdo dei mercantili che le organizzazioni criminali turche utilizzavano per portare i profughi in Europa. Un accordo siglato con le autorità di Ankara ha di fatto consentito di fermare il flusso, ma certo non è stato sufficiente per scoraggiare le partenze. Anzi. La situazione di crisi forte in Medio Oriente, in particolare ciò che sta accadendo in Siria, ha convinto oltre un milione di stranieri a lasciare le proprie terre. La strada più breve passa appunto per la Turchia e da lì continua verso le isole greche.
I mezzi
di Frontex
La denuncia dell’Unhcr è forte e chiara: in quel tratto di mare i controlli sono insufficienti e anche a terra le verifiche effettuate non sono sufficienti. «Le persone — denuncia la portavoce Carlotta Sami — vengono tenute per giorni, addirittura settimane nascoste nella boscaglia al freddo prima di ottenere il via libera a imbarcarsi. E quando questo avviene il rischio è altissimo. Perché è vero che si devono percorrere poche decine di miglia, ma la traversata è molto insidiosa. Bruxelles aveva promesso di potenziare il monitoraggio, inviando mezzi e uomini. Dove sono? E soprattutto, qual è il loro mandato? Noi possiamo testimoniare che in quella zona è praticamente inesistente l’attività di ricerca e salvataggio nonostante sia ormai chiaro che si tratta della rotta maggiormente battuta dalle famiglie che fuggono dalla guerra». Sono tantissimi quelli che non hanno mai visto il mare, non sanno nuotare, e anche un banale incidente si trasforma in una tragedia.
Chi riesce a raggiungere la Grecia percorre a piedi oppure a bordo di camion l’ultimo tratto del viaggio. Centinaia di chilometri attraverso i Balcani con la speranza di trovare asilo in uno Stato europeo. Un calvario che ha tempi lunghissimi, condizioni di vita spesso proibitive. Per questo Raffaela Milano, direttore dei Programmi Italia-Europa Save the children, chiede «il potenziamento immediato delle operazioni di soccorso per scongiurare la perdita di altre vite umane, la messa in sicurezza dei canali di arrivo rinforzando e sostenendo i programmi di ammissione umanitaria, compresi i visti umanitari, facilitando le riunificazioni, supportando ed espandendo i programmi di reinsediamento. L’unica risposta seria e concreta per garantire sicurezza alle famiglie in fuga».
Fiorenza Sarzanini


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