Se l’eccezione è permanente
La chiusura delle frontiere, lo abbiamo già visto su scala anche maggiore in altre occasioni, è una reazione a catena. Che oltre ad essere incontrollabile è anche imprevedibile nei suoi tempi e nei suoi modi.
È infatti il giudizio insindacabile dei singoli governi, non una regola comune o una linea concordata, a decretare quella condizione di emergenza che, secondo il trattato di Schengen, consente di sospendere, anche se solo temporaneamente, la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea. La classica definizione dello stato sovrano (colui che decreta lo stato di emergenza) prevale dunque su ogni forma di cooperazione o legislazione comunitaria.
E poiché l’emergenza è diventata tanto frequente e «strutturale» da contraddire il suo stesso significato, il primato delle sovranità nazionali si insedia stabilmente nel cuore del Vecchio continente.
Con un’occhio attento alle opinioni pubbliche interne alle quali i singoli governi rivendono il proprio zelo securitario sul mercato della paura nella scia velenosa della Francia di Hollande. La Svezia chiude il confine con la Danimarca, introducendo severi controlli? Copenhagen, risponde restaurando immediatamente le sue frontiere con la Germania. E il domino potrebbe continuare.
E il domino potrebbe continuare di confine in confine se a Berlino non ci si fosse resi conto che così il trattato di Schengen, con tutto quello che esso rappresenta sul piano simbolico e su quello, più pragmatico e profittevole, di agevolare i flussi di “capitale umano” nello spazio dell’unione, rischia di sgretolarsi senza rimedio.
Così, prima il portavoce del ministero degli esteri, poi quello della cancelleria, hanno suonato l’allarme, rivendicando fortemente la necessità di valutazioni e decisioni comuni. Berlino chiede, insomma, di porre fine a quella inquietante serie di gesti unilaterali, nemmeno concordati tra i due versanti della frontiera, che rendono il transito attraverso l’Unione un’ardua scommessa. E il rapporto tra gli stati affidato a puro e semplice arbitrio.
Hanno ragione: un trattato di libera circolazione attraverso uno spazio politico ed economico unitario non può evidentemente funzionare a singhiozzo, come sta invece accadendo fin dall’inizio della “crisi dei migranti”, pena la sua rapida estinzione.
Non si tratta neanche più della sola mancanza di una politica comune. ma dell’instaurarsi di una reciproca diffidenza tra i paesi europei, sempre più orientati alla cosiddetta “priorità nazionale” e a ricattarsi a vicenda.
Chiudere la frontiera significa, in primo luogo e molto semplicemente, non fidarsi più del proprio vicino. Perso ogni potere di negoziazione con le “democrazie postcomuniste” dell’Est , ora è nel cuore della vecchia Europa occidentale che l’autarchismo politico va affermandosi sempre più decisamente.
La Germania si rende conto del pericolo, ma non dovrebbe dimenticare le sue responsabilità negli squilibri, le divisioni e le fratture che oggi mettono a repentaglio l’integrazione europea.
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