L’inquinamento è la nostra impronta collettiva
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Una cosa è certa: le immagini di Milano e dalla Val Padana ridotte come i più angoscianti scenari dei film di fantascienza destano in tutti paura e sconcerto. Ma credo che un’altra certezza vada accompagnata alla prima: quella, cioè, dell’inaudita stoltezza, morale anche prima che civile, di chi tenta di sollevare un caso politico da questa nuova sciagura. Chi va a votare dovrebbe riflettere su questi episodi di pochezza intellettuale, prima di scegliere. Perché questi polveroni demagogici hanno un solo merito involontario: quello di rivelare che turpe idea della politica nutre chi li solleva.
La verità è una sola, e incontestabile: qualunque governo, qualunque giunta municipale fosse stata in carica in questo dicembre 2015, il nuvolone di smog sarebbe stato lì, sulle teste e negli apparati respiratori dei milanesi. Possiamo immaginare che il sindaco in carica di Milano sia Giuseppe Verdi, o Topolino, o Einstein: il risultato non potrebbe cambiare.
Non voglio assolutamente affermare che la politica non possa migliorare le nostre condizioni di vita nell’unico mondo che abbiamo e che stiamo trasformando in una trappola mortale. Come è successo a Parigi, la politica può tentare di non pregiudicare il futuro, che appartiene di diritto a chi verrà dopo di noi. Sono processi lunghi e faticosi, pieni di incertezze e di spinosi dilemmi. Ma questo smog è il presente, e conviene chiedersi cosa significa per ognuno di noi, considerato nella sua libertà e nella sua responsabilità. E allora, prima di proiettare il nostro rancore e la nostra paura su un’idea dei doveri di chi comanda, bisognerebbe iniziare con il dirsi: l’aria irrespirabile è un’impronta digitale collettiva, la somma di lievi, quasi impercepibili responsabilità collettive che unite si trasformano in un gravissimo delitto. Siamo noi che portiamo i figli a scuola con la macchina, che consideriamo normale che a Natale ci sia più traffico, che magari andiamo (in macchina, ovviamente) a giocare a tennis, ma riteniamo inconcepibile fare un paio di chilometri a piedi. Siamo noi che alla prima tramontana trasformiamo la nostra casa in un forno e al primo giorno caldo vogliamo che case e negozi somiglino a un frigorifero. Siamo noi che sprechiamo, sporchiamo, facciamo i furbi. Siamo noi, in sintesi, che abbiamo un’idea bulimica e ipertrofica di ogni forma di benessere.
Perché dentro di noi abita una specie di bambino pazzoide che concepisce ogni limite come un’infelicità, e ogni minima privazione volontaria come un affronto al nostro diritto a esistere. Ma la cosa più brutta è che non riusciamo nemmeno a produrre dei modelli contrari credibili per tutti, capaci di creare un contagio positivo. Perché non c’è nessun fascino nel buon senso: non c’è, purtroppo, mai stato. Se uno dice, per esempio, che conviene mangiare meno carne, non produce nessun pensiero capace di andare di moda, di creare dibattiti e interviste. Nessuna celebrità in declino si converte a un’idea di buon senso. Per noi, è meglio un’umanità che si strafoga di insaccati e che produce al suo interno delle minoranze che odiano la carne, e odiano pure il pesce, e già che ci sono non si mettono più i maglioni di lana perché sono amiche delle pecore. E allo stesso modo, non c’è nessuna possibilità di creare una nuova dannata «tendenza» evitando di riscaldare troppo la casa. Una tacca o due del termostato: quale rivista, quale sito se ne occuperebbe? Quanto è bello, al contrario, predicare la «decrescita»! Questo sì che crea prestigio, cattedre universitarie, fama di sapienti.
Una delle cose più terribili del nostro tempo è la morsa che ci stringe tra l’indifferenza della maggioranza e la superiorità morale delle minoranze. La prima è fatta di egoismo e abitudine, la seconda è una specie di marketing dell’utopia, un’ossessione di purezza che finge di essere centrata sul mondo, ma bada solo a se stessa. Di tutte queste cose è fatto lo smog: stupidità che si materializza in polveri sottili e monossidi letali.
Chissà quante catastrofi ci costringeranno a riprendere in mano il filo d’Arianna dell’intelligenza, dell’empirismo. Quel discorso interiore forse opaco, ma pieno di dignità, che ci fa ammettere che è vero, ogni giorno sbagliamo, forse non possiamo fare altro, ma è pure vero che ogni giorno possiamo provarci, a spegnere una benedetta luce, a farci una passeggiata. Un grande e dimenticato scrittore del Novecento, Nicolas Bouvier, diceva che «un passo verso il meno è un passo verso il meglio». Un passo: né l’immobilità irresponsabile, né il salto mortale di cui nessuno ha la forza. Il meglio: che è una cosa diversa dal niente e dal tutto, questi eterni produttori di smog. I seguaci di questa intelligenza senza nome e senza lustrini non si sognano nemmeno di trasformare in uno «scontro politico» le conseguenze drammatiche di una vita che nessuno ci ha insegnato a vivere, e di cui nessuno possiede la formula esatta.
La verità è una sola, e incontestabile: qualunque governo, qualunque giunta municipale fosse stata in carica in questo dicembre 2015, il nuvolone di smog sarebbe stato lì, sulle teste e negli apparati respiratori dei milanesi. Possiamo immaginare che il sindaco in carica di Milano sia Giuseppe Verdi, o Topolino, o Einstein: il risultato non potrebbe cambiare.
Non voglio assolutamente affermare che la politica non possa migliorare le nostre condizioni di vita nell’unico mondo che abbiamo e che stiamo trasformando in una trappola mortale. Come è successo a Parigi, la politica può tentare di non pregiudicare il futuro, che appartiene di diritto a chi verrà dopo di noi. Sono processi lunghi e faticosi, pieni di incertezze e di spinosi dilemmi. Ma questo smog è il presente, e conviene chiedersi cosa significa per ognuno di noi, considerato nella sua libertà e nella sua responsabilità. E allora, prima di proiettare il nostro rancore e la nostra paura su un’idea dei doveri di chi comanda, bisognerebbe iniziare con il dirsi: l’aria irrespirabile è un’impronta digitale collettiva, la somma di lievi, quasi impercepibili responsabilità collettive che unite si trasformano in un gravissimo delitto. Siamo noi che portiamo i figli a scuola con la macchina, che consideriamo normale che a Natale ci sia più traffico, che magari andiamo (in macchina, ovviamente) a giocare a tennis, ma riteniamo inconcepibile fare un paio di chilometri a piedi. Siamo noi che alla prima tramontana trasformiamo la nostra casa in un forno e al primo giorno caldo vogliamo che case e negozi somiglino a un frigorifero. Siamo noi che sprechiamo, sporchiamo, facciamo i furbi. Siamo noi, in sintesi, che abbiamo un’idea bulimica e ipertrofica di ogni forma di benessere.
Perché dentro di noi abita una specie di bambino pazzoide che concepisce ogni limite come un’infelicità, e ogni minima privazione volontaria come un affronto al nostro diritto a esistere. Ma la cosa più brutta è che non riusciamo nemmeno a produrre dei modelli contrari credibili per tutti, capaci di creare un contagio positivo. Perché non c’è nessun fascino nel buon senso: non c’è, purtroppo, mai stato. Se uno dice, per esempio, che conviene mangiare meno carne, non produce nessun pensiero capace di andare di moda, di creare dibattiti e interviste. Nessuna celebrità in declino si converte a un’idea di buon senso. Per noi, è meglio un’umanità che si strafoga di insaccati e che produce al suo interno delle minoranze che odiano la carne, e odiano pure il pesce, e già che ci sono non si mettono più i maglioni di lana perché sono amiche delle pecore. E allo stesso modo, non c’è nessuna possibilità di creare una nuova dannata «tendenza» evitando di riscaldare troppo la casa. Una tacca o due del termostato: quale rivista, quale sito se ne occuperebbe? Quanto è bello, al contrario, predicare la «decrescita»! Questo sì che crea prestigio, cattedre universitarie, fama di sapienti.
Una delle cose più terribili del nostro tempo è la morsa che ci stringe tra l’indifferenza della maggioranza e la superiorità morale delle minoranze. La prima è fatta di egoismo e abitudine, la seconda è una specie di marketing dell’utopia, un’ossessione di purezza che finge di essere centrata sul mondo, ma bada solo a se stessa. Di tutte queste cose è fatto lo smog: stupidità che si materializza in polveri sottili e monossidi letali.
Chissà quante catastrofi ci costringeranno a riprendere in mano il filo d’Arianna dell’intelligenza, dell’empirismo. Quel discorso interiore forse opaco, ma pieno di dignità, che ci fa ammettere che è vero, ogni giorno sbagliamo, forse non possiamo fare altro, ma è pure vero che ogni giorno possiamo provarci, a spegnere una benedetta luce, a farci una passeggiata. Un grande e dimenticato scrittore del Novecento, Nicolas Bouvier, diceva che «un passo verso il meno è un passo verso il meglio». Un passo: né l’immobilità irresponsabile, né il salto mortale di cui nessuno ha la forza. Il meglio: che è una cosa diversa dal niente e dal tutto, questi eterni produttori di smog. I seguaci di questa intelligenza senza nome e senza lustrini non si sognano nemmeno di trasformare in uno «scontro politico» le conseguenze drammatiche di una vita che nessuno ci ha insegnato a vivere, e di cui nessuno possiede la formula esatta.
Emanuele Trevi
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