Voglia di lotta armata tra i giovani saharawi
Reportage. Nei campi profughi del deserto algerino per il 14mo congresso del Fronte Polisario. Per ottenere l’indipendenza dal Marocco sì all’«intifada» pacifica e alla via della diplomazia, ma senza escludere l’opzione militare. Abdelaziz rieletto a capo della Rasd
«Non c’è alternativa» gridano i saharawi da ormai 40 anni, la badil. L’unica soluzione è l’autodeterminazione del Sahara Occidentale, occupato dal Marocco nel 1975. Ma sembra non esserci alternativa neppure rispetto alla leadership, per l’ultimo Stato non ancora decolonizzato d’Africa. Sarà ancora Mohamed Abdelaziz a guidare la Repubblica araba saharawi democratica (Rasd), per il dodicesimo mandato consecutivo e dopo 39 anni ininterrotti di presidenza. Lo ha deciso il Congresso numero 14 del Fronte di liberazione popolare di Saguia el Hamra e del Rio de Oro, il Frente Polisario, che si è riunito a Dakhla, nei campi di rifugiati saharawi, tra il 16 e il 22 dicembre scorsi.
Questa volta Abdelaziz correva da solo. Il Congresso lo ha indicato come unico candidato sia per la segreteria generale del movimento indipendentista, che per la presidenza della Repubblica. E lo ha votato con il 90% dei consensi. Un verdetto su cui, per la verità, erano pochi i dubbi già alla vigilia. E dire che era stato lo stesso presidente, oggi sessantottenne e in condizioni di salute non ottimali, a chiedere ancora una volta di potersi fare da parte. «È tempo di trovare un nuovo segretario generale» si era raccomandato pubblicamente, appena una settimana prima dell’inizio del Congresso. Non lo hanno esaudito i 2.742 delegati riuniti nella località desertica, nel sud-ovest algerino, la wilaya più colpita dalla devastante alluvione dello scorso autunno.
Deluse le attese per un completo ricambio generazionale, resta tuttavia un congresso importante, specie dal punto di vista politico, quello andato in scena a Dakhla, sotto lo slogan «forza, determinazione e tenacia per imporre l’indipendenza e la sovranità». Ancora una volta, come già nel 2011, vi hanno preso parte circa 60 delegati provenienti dai territori occupati dal Marocco. Oltre un centinaio quelli provenienti dalla diaspora europea e africana, specie dalla Mauritania, rappresentata con 40 delegati. «Il dibattito interno è serrato, come mai in passato – rivela Abeid, uno dei congressisti provenienti dai campi – il Polisario ha scelto la via del rispetto delle norme internazionali. Ma l’attesa dura ormai da troppi anni. I giovani, specie qui nelle wilaye, sono stanchi di questa situazione».
Una questione su tutte
Sul tavolo c’è una questione su tutte: ritornare o meno alla guerra contro il Marocco invasore. Uno scenario evocato spesso, negli ultimi anni, senza mai concretizzarlo. L’apparato del Polisario, Abdelaziz in testa, continua a contenere la disperata impazienza dei giovani, cercando di dar tempo alla diplomazia. Ma quella militare resta un’opzione.
«La lotta armata – spiega il presidente – lungi dall’essere un semplice strumento di minaccia, è un dovere sacro per tutti i membri del Fronte Polisario. Essa è un legittimo diritto sancito dalla Carta costituzionale e avallato da varie risoluzioni delle Nazioni Unite. Rimarrà un’opzione permanente, finché non si raggiungerà la fine dell’occupazione». «Intensificheremo la preparazione della nostra forza militare – rimarca il primo ministro uscente Abdelkader Taleb Omar – di pari passo continueremo a dialogare con l’Onu, cercando una soluzione diplomatica. Una priorità resta l’intifada por la independencia, la lotta pacifica contro l’occupazione marocchina, che prosegue nei territori occupati, sfidando una repressione continua».
Nel 2009 era stato lo sciopero della fame della nota attivista Aminatou Haidar a catalizzare, per una volta, l’attenzione sul Sahara Occidentale. Un movimento che ha raggiunto il suo apice nel 2010, quando andò in scena la grande protesta di Gdeim Izik, nei pressi di Al Aaiun. «Il campo della dignità», definito da Noam Chomsky come il vero inizio della «primavera araba», radunò per un mese 25 mila saharawi, prima che l’esercito marocchino lo mettesse a ferro e fuoco. Da allora, la reazione della monarchia di Mohamed VI è stata dura. Espulsioni arbitrarie di cooperanti, parlamentari e giornalisti dai territori occupati. E poi arresti e carcerazioni nei confronti dei saharawi. È il caso dei 24 attivisti condannati nel 2013 dal tribunale militare di Rabat a pene che vanno dai 20 anni all’ergastolo, per i fatti di Gdeim Izik. Uno di loro, Hassanna Aalia, era riuscito a sottrarsi alla cattura, riparando in Spagna. Oggi è ancora in lotta con il governo iberico per ottenere l’asilo politico.
«A Gdeim Izik ho capito per la prima volta cosa fosse la libertà», afferma il giovane congressista Ahmed Brahim Ettanji, proveniente da Al Aaiun occupata, dove è mediattivista nella piattaforma informativa di Equipo Mediatico. «La guerra – dice – è un’opzione che avrebbe ripercussioni innanzitutto su chi vive nei territori occupati. Io credo che la lotta pacifica possa portarci più lontano. Posso capire la stanchezza dei miei coetanei che vivono qui, nei campi e attendono da anni un cambiamento che non arriva mai. Ma continuo a credere che la via pacifica debba prevalere. La guerra ha insanguinato gli anni Ottanta, fino al cessate il fuoco del ’91 e ha tagliato in due un popolo che oggi, dopo 40 anni, dimostra di essere ancora unito. L’intifada por la independencia lo dimostra».
La soluzione diplomatica
Il Polisario continua a caldeggiare la via diplomatica per una soluzione pacifica della crisi, da ricercare ancora assieme all’Onu. Malgrado le componenti più giovani del movimento di indipendenza del popolo saharawi siano ormai scettiche. «La comunità internazionale è latitante – dice Abdeslam, studente della wilaya di Dakhla – lo scorso maggio le Nazioni Unite hanno prorogato il mandato della Minurso, snobbando completamente la nostra richiesta di dotare i caschi blu della vigilanza sul rispetto dei diritti umani. Ci stanno prendendo in giro».
Uno studio sociologico, condotto quest’anno dal professor Carlos Vilches dell’Università pubblica di Navarra, fotografa la sfiducia dei saharawi di età compresa tra i 16 e i 30 anni nei confronti delle Istituzioni internazionali. E non solo. Stando ai dati, l’istituzione che risulta più apprezzata è l’Esercito di liberazione popolare saharawi (Elps). Al secondo posto viene il Frente Polisario. Mentre all’Onu spetta l’ultima piazza. Appena un gradino sopra ci sono le ong internazionali. Tuttavia, la maggior parte dei giovani saharawi, nati e cresciuti nei campi di rifugiati e talvolta figli di genitori a loro volta nati nei campi, non scinde il proprio progetto di vita da quello di liberazione nazionale.
E c’è chi non lesina critiche all’immobilismo del Polisario: «Dopo 40 anni, ancora nessun cambio al vertice – dice Said Zarwal, direttore della rivista Futuro Sahara, per la prima volta accreditata a seguire i lavori del Congresso – le nuove generazioni dovranno aspettare ancora quattro anni per potersi proporre. Alcuni movimenti, come la Juventud de la Revolución Saharaui, non sono stati ammessi al dibattito. Non è questa la via per preparare un cambio generazionale».
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