Clima, l’ultima chance Obama: errori dagli Usa ma cambiamo il futuro L’India: prima la crescita

Clima, l’ultima chance Obama: errori dagli Usa ma cambiamo il futuro L’India: prima la crescita

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PARIGI. «Le speranze dell’umanità poggiano sulle nostre spalle, mai la posta in gioco è stata così alta». Così François Hollande apre il vertice sul cambiamento climatico. Barack Obama accetta la parte del “grande inquinatore pentito” e ammette: «Riconosciamo il ruolo dell’America nel creare questo problema. Abbiamo il potere di cambiare il futuro ma solo se saremo all’altezza di questo appuntamento. Come avvertì Martin Luther King, si può arrivare troppo tardi. E noi ci siamo quasi, siamo l’ultima generazione che può fare qualcosa».
Dall’Africa arriva l’appello di papa Francesco: «Il mondo è sull’orlo del suicidio». Il summit parigino si apre in uno scenario che ne accentua la drammaticità. La sera prima Obama e altri leader appena arrivati sono andati a deporre fiori davanti al Bataclan, a ricordare le vittime dei terroristi. Le Bourget, l’area riservata al vertice, è “zona blu” presidiata da forze Onu, ma circondata da migliaia di poliziotti e militari francesi. Parigi è in stato d’assedio con ampie zone vietate al traffico, per proteggere 150 leader e 195 delegazioni nazionali.
I capi di Stato e di governo danno il via ai lavori che dureranno 12 giorni, per produrre un accordo che deve entrare in vigore nel 2020. L’obiettivo: contenere l’aumento della temperatura planetaria a +2 gradi rispetto all’èra pre-boom industriale. Sulla base dei piani fin qui presentati, salirà di almeno 2,5 gradi. «Il rischio è che raggiungeremo l’obiettivo, perché lo abbiamo fissato troppo basso», avverte Hollande.
Obama descrive l’emergenza ambientale che abbiamo creato: «Gli ultimi 14 anni sono i più caldi della storia da quando registriamo le temperature. Ho visto coi miei occhi in Alaska il mare che inghiotte villaggi, la tundra che brucia, i ghiacciai che si sciolgono. È un anticipazione del futuro che prepariamo ai nostri figli: nazioni sommerse, città abbandonate, campi che non danno più raccolti, nuove guerre e fiumane di profughi disperati».
Il vertice deve rendere coerenti i piani nazionali che ciascun governo ha preparato, per limitare le emissioni carboniche del proprio paese entro il 2025 o il 2030. Obama garantisce per gli Stati Uniti entro un decennio tagli del 26–28% al di sotto dei livelli del 2005 grazie alle nuove norme su automobili, camion, centrali elettriche. Xi Jinping impegna la Cina a fermare l’aumento dei gas-serra entro il 2030. Insieme, sono le due maggiori potenze inquinatrici del pianeta. Su questo terreno hanno trovato un linguaggio comune, una presa di responsabilità congiunta. «Sono molto più numerose le cose che ci uniscono», dice Obama.
Qualche divergenza c’è con Hollande, che a nome di tutta l’Europa avrebbe voluto strappare degli impegni giuridicamente vincolanti. Anche Renzi ha sottolineato: «Serve un accordo più vincolante possibile, altrimenti resterebe scritto sulla sabbia». Un’opzione impresentabile a Washington, dove il Congresso a maggioranza repubblicana boccerebbe un trattato stile Kyoto. Per Obama l’alternativa è «un controllo costante sugli impegni presi, una pressione congiunta per rispettarli, e la massima trasparenza sul percorso che faremo». Più nette sono le differenze Nord-Sud. Le ricorda il premier indiano Narendra Modi che evoca Gandhi, «il più grande difensore della natura», e lancia una requisitoria contro l’Occidente ricco e sprecone: «Lo stile di vita di una minoranza non deve escludere le opportunità della maggioranza, che è ancora ai primi gradini dello sviluppo. La comunità internazionale non può imporre la fine delle energie fossili, bisogna lasciare spazio alla crescita dei paesi in via di sviluppo». Obama però avverte che «proprio quelli che hanno inquinato di meno, saranno i primi a subire gli effetti disastrosi del cambiamento climatico ». La Cina appoggia le ragioni del Sud, ma accetta di stare dalla parte dei ricchi nel finanziare il trasferimento di tecnologie verdi ai più poveri. Siamo ancora lontani dall’obiettivo di 100 miliardi che era stato fissato sei anni fa a Copenaghen: solo 60 miliardi stanziati.
Da Parigi non uscirà un trattato con valore giuridico, dunque, ma un sistema di “ Transparency & Reporting”, monitoraggio permanente dei progressi compiuti, sottoposti a vigilanza e verifiche internazionali. Un approccio complementare viene offerto dal settore privato. L’alfiere è Bill Gates, il fondatore della Microsoft e filantropo, accolto a Le Bourget alla pari dei capi di Stato. Promuove Mission Innovation, un piano per convogliare capitali privati nella ricerca di tecnologie nuove. Non basta lo stato attuale dell’energia solare e dell’eolica, serve un balzo nel progresso tecnologico di ben altre dimensioni. «C’è bisogno – dice Gates – di un’energia a buon mercato che sollevi interi popoli dalla povertà, un’energia pulita e rinnovabile che costi meno del carbone». Ha già riunito 28 investitori privati che stanziano 7 miliardi di dollari, e 40 università guidate dalla University of California. Anche Matteo Renzi sottolinea il ruolo delle imprese, citando ciò che fanno l’Eni e l’Enel in Africa e in America latina.
I leader se ne andranno già stasera, lasciando le loro delegazioni fino a metà dicembre. Copenaghen nel 2009 fu un fiasco anche perché i capi di governo arrivarono alla fine, quando le divergenze si erano cristallizzate. Stavolta hanno preferito dare la benedizione iniziale. Hanno scelto il realismo, a rischio che si realizzi il timore di Hollande: che alla fine si possa dichiarare “missione compiuta” perché gli obiettivi erano modesti, forse insufficienti, forse tardivi. A Washington e altrove, più di così le opinioni pubbliche non sembrano disposte ad accettare. E molti leader assecondano i propri elettorati nazionali, anziché educarli. L’idea lanciata dalla comunità scientifica, di fissare un “monte emissioni” totale da non superare, e poi assegnare quote ai singoli paesi, non passa. Solleverebbe un immenso conflitto distributivo su scala mondiale. E poi non è un’epoca in cui le opinioni pubbliche accettino facilmente i diktat di organismi sovranazionali.


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