DI qui l’annuncio del ministro della Giustizia italiano, che punta a estendere le intercettazioni ben oltre la telefonia mobile, fino a includere chat, videogiochi e piattaforme per scaricare musica.
Ogni infrastruttura digitale suscettibile di ospitare conversazioni diventa uno spazio da acquisire allo spionaggio anti-terrorismo. Inquirenti, forze dell’ordine, servizi segreti, devono rincorrere fenomeni generazionali sui quali sono spesso in ritardo. I terroristi, o le loro potenziali reclute, sono per lo più ventenni. Il proselitismo avviene talvolta per auto-candidatura spontanea: si fa “shopping online” per educarsi all’odio, assimilare una cultura che legittima la violenza e l’annientamento di vittime innocenti. Per immergersi in questo nichilismo generazionale, i ventenni usano le tecnologie di cui sono padroni.
Chi li insegue spesso ha l’età dei loro genitori; e come i loro genitori, è spiazzato, in affanno. Anche nell’antiterrorismo si riproduce il divario tra “nativi digitali”, che si muovono nelle nuove tecnologie come pesci nell’acqua, e “immigrati digitali” che devono apprendere un linguaggio straniero. Da un lato quindi è normale che lo Stato debba adeguare i suoi metodi e i suoi poteri. Dall’altro ovviamente c’è uno scambio da fare tra sicurezza e privacy. Anche in un videogame si potrà essere spiati dal Grande Fratello.
Dove sono i limiti, quali pericoli che corriamo, di fronte a queste intrusioni? Fin dove lo Stato si può spingere, nella logica delle leggi speciali? Dopo l’orrore di Parigi è comprensibile che una maggioranza dell’opinione pubblica metta al primo posto le ragioni della sicurezza. Avvenne anche in America dopo l’11 settembre 2001. Nacque il Patriot Act, la legge speciale voluta da George W. Bush, e gli abusi che ne seguirono. Le intercettazioni della National Security Agency si allargarono a dismisura. Solo dopo le rivelazioni di Edward Snowden c’è stata un’indagine del Congresso, a cui l’Amministrazione Obama ha risposto ristabilendo qualche controllo, qualche limitazione, qualche garanzia in più. Ma al G20 di Antalya in Turchia, il 15 novembre lo stesso Obama ha invitato gli europei ad essere meno diffidenti sulle intercettazioni. È vero che nella nostra vita digitale usiamo spesso due pesi e due misure: ci scandalizziamo se viene spiato dalla Nsa il telefonino di Angela Merkel, mentre ogni giorno Google e Facebook saccheggiano la nostra corrispondenza privata per vendere la nostra anima di consumatori al migliore offerente.
Il precedente americano, in particolare l’uso del Patriot Act, indica che i pericoli sono di due categorie molto diverse. Da una parte c’è il rischio di abusi, da parte di un apparato della sicurezza che di fronte ai terroristi diventa sempre più vasto, tendenzialmente auto-referenziale, un “corpo separato” allergico ai controlli parlamentari o ai diritti del cittadino. D’altro lato, almeno altrettanto serio è il pericolo di una deriva hi-tech che diventa delirio di onnipotenza: con l’intelligence che s’illude di sconfiggere il nemico attraverso Big Data. Mentre un certo tipo di terrorista si muove molto al di sotto degli schermi radar, con cellule piccole, senza un’organizzazione centrale.
Dai fratelli ceceni della maratona di Boston, ai marocchini-belgi di seconda generazione di Molenbeek, i grandi apparati dello spionaggio tecnologico non possono sostituire il lavoro di un’intelligence diffusa, con antenne sensibili sul territorio, con la cooperazione indispensabile delle comunità islamiche, delle famiglie, dei coetanei che segnalino le “conversioni” improvvise alla jihad.
In quanto allo Stato di diritto, in Occidente ha dimostrato di saper sopravvivere alle leggi speciali, dagli anni di piombo italiani al terrorismo irlandese o basco, ivi compresa l’America di Obama. Una delle ragioni per cui anche sotto l’aggressione dei terroristi non siamo diventati Stati di polizia, sta proprio nella vigilanza dell’opinione pubblica e dei suoi mezzi d’informazione.