Dal Belgio negli ultimi anni sono arrivati alcuni dei protagonisti degli episodi più drammatici di violenza estremista: dai killer che uccisero il comandante afgano Massoud a Muriel Degauque, prima europea a trasformarsi in kamikaze a Bagdad nel 2005. E ora gli assassini di Parigi.
Molenbeek è un quartiere che quest’uomo, belga di origini marocchine, conosce bene. Ci è nato e ci vive ancora. Sa dove si trova Salah? Silenzio. Lo provochiamo. Si dice che abbia tradito: alla fine ha deciso di non farsi esplodere. «E’ probabile. Si sarà rinsavito». Dopo aver sparato contro i clien- ti di bar e ristoranti? «Questo non lo so». E cosa sa? «So che aveva bisogno di soldi». Pare ne avesse. Così dicono gli amici che sono andati a prenderlo a Parigi. «Non credo. La sera prima delle stragi ha discusso violentemente con il fratello, quello che si è fatto esplodere». A proposito di cosa? «Che non erano stati ancora pagati». Un mercenario, più che un jihadista. «Jihadista… voi usate sempre questo termine: ma i soldi servono in caso le cose siano andate male. Se devi scappare, camuffarti. Lui non li aveva e si è lamentato con il fratello».
Ha scelto di restare in vita. Adesso lo cercano quelli del Daesh. Gente che lo vuole morto. «Per questo l’altro fratello lo ha invitato a consegnarsi. Ma lui sa che significa il carcere. A vita». Deve scegliere. Daesh potrebbe vendicarsi del tradimento con la famiglia. «La famiglia ha paura».
Anche Mohamed, uno dei tanti amici dell’ultimo uomo del commando di Parigi, il grande latitante braccato dalle polizie di mezzo mondo, resta sorpreso dal salto compiuto dal compagno. Insieme, se gli diamo retta, facevano la vita che fanno tutti i giovani della loro età. Ragazze, spinelli, musica, calcio, chiacchiere e lunghe giornate al bar. Quello gestito da Ibrahim Abdeslam, 31 anni, esploso con la sua cintura di morte a Parigi. Ma anche nel caso di Salah è scattato qualcosa.
Prima di lasciarci il tassista ricorda: «Da tre mesi non fumava e non usciva più la sera. Si era messo a fare corse e ginnastica. Si stava preparando. Fisicamente». Lei immaginava perché? «Qui sanno tutto di tutti».
E’ vero. Più che un grande quartiere, Molenbeek è una casbah. Abitata da gente del Maghreb, l’80% marocchina. Gli abitanti sono fieri di aver riprodotto qui, nel cuore dell’Europa, un pezzo della terra che hanno lasciato tre generazioni fa. La guerra in Iraq e l’inferno siriano hanno cambiato tutto. Daesh è diventata una calamita. Non solo per lo stuolo di giovani disoccupati che qui non trovano lavoro, ma anche per i figli di quella piccola borghesia. Le storie dei 494 foreign fighters offerti da Molenbeek, tra cui 54 donne, è identica. Un impiego pubblico, il licenziamento, i furti, le rapine, le violenze, traffici di droga e documenti. Le armi. Liegi è famosa per ospitare la più grande fabbrica di esportazione di materiale bellico. E questo, assieme ad una passione da collezionisti e ad un vero e proprio culto per la materia, attribuisce al Belgio il ruolo di collettore del traffico legale e illegale delle armi. Arrivano dai Balcani.
Le partenze per la Siria, il mito della jihad, ma soprattutto il ritorno dei combattenti, troppo a lungo tollerato e sottovalutato, ha creato una polveriera. Il Belgio era e restava una base. Si contano sulle dita gli attentati. Nel mirino c’era la Francia. La cellula di Verviers è stata smantellata il 15 gennaio scorso. Si è appurato che era guidata da Abdelhamid Abaaoud, il regista delle stragi di Parigi, morto a Saint Denis. Viveva qui. Come Amedy Coulibaly, come Mehdi Nemmouche, killer del museo ebraico, come Ayoub el-Khazzani, attentatore del treno Thalys nell’agosto scorso. Come 3 degli 8 membri del commando di Parigi. Racconta un jihadista arrestato dalla polizia belga: “Una volta mi ha confidato di aver trovato 25 chili di Tnt in Belgio. Mi diceva che era stato complicato. Ma che nel Belgistan, come chiamava Molenbeek, alla fine si trova tutto».