Fiscal combat
Il presidente della Commissione Ue Juncker, a tre giorni dagli attentati di Parigi, ha aperto i cordoni del fiscal compact, il patto d’acciao dell’Unione europea: «I soldi spesi per la sicurezza e la difesa non saranno considerati nella valutazione sui limiti del deficit». Era accaduto anche per i profughi nel tentativo di compattare il fronte ormai maggioritario dei recalcitranti ad accogliere rifugiati emigranti. Serviranno, temiamo, per realizzare sulla pelle dei disperati in fuga da guerre e miseria una indicizzazione di spesa utile alla fine ad esternalizzare nei Paesi «sicuri» un universo di campi di concentramento.
Ma ora questa nuova decisione su «sicurezza e difesa» è davvero illuminate quanto a trasformazione istituzionale della governance internazionale. Vuol dire che viene rimesso in discussione l’intoccabile fiscal compact, quel diktat Ue che ha bloccato e blocca ogni espansione della spesa pubblica, arma ineludibile e necessaria per i governi di fronte al disastro sociale provocato dalla crisi economica del modello di sviluppo nel quale viviamo, obbligando fin qui ogni Paese a restare dentro le logiche dei mercati e della finanza internazionale. È un cappio al collo per ogni governo e un handicap sui valori fondanti dell’Unione europea. Ha infatti impedito interventi sociali, fino a ridurre al taglio del welfare e spesso alla fame paesi come la Grecia, condizionando le scelte di Spagna, Portogallo, Italia e non solo.
Ora non più, il tabù è caduto per «sicurezza e difesa», i soldi per fare altre guerre, per nuovi traffici di Stato di armi, per militarizzare i territori, per nuove avventure militari con ulteriori cosiddetti «effetti collaterali» che tanto odio seminano, ci sono e vanno messi liberamente in bilancio.
Matteo Renzi ha commentato la decisione di Juncker con un «efficace» e poco laico aggettivo: «Sacrosanto», ha detto. Deve essere davvero grande dio, se permette uno sforamento sacro e santo per «sicurezza e difesa» del fiscal compact, finito in modo scellerato come vincolo istituzionale perfino nella nostra Costituzione repubblicana. Naturalmente «sacrosanto» è una specie di bestemmia, se solo si riflette sul fatto che l’Italia ha impegnato nel 2014 per la spesa militare 29,2 miliardi di euro, equivalenti a 80 milioni di euro al giorno (al giorno). Certo Renzi fin qui si mostra avveduto su nuove guerre e, dichiarando «non vogliamo per la Siria una Libia bis» — ma già è una Libia bis, mentre gli attacchi dell’Isis in Mali derivano proprio dai santuari in armi conquistati dai jihadisti con il disastro in Libia — sembra avere imparato la lezione.
Soprattutto perché l’insidia di una nuova guerra da «Libia bis» sarebbe l’anticamera della sua uscita di scena; ma per quelle che già ci sono o per quelle che — nemmeno ascoltando la maledizione del papa — comunque stiamo attivando, la mano libera concessa da Bruxelles resta più che bene accetta. Perché permette l’espansione di spesa per l’allungamento della presenza italiana nella missione Nato in Afghanistan dove le stragi come quelle di Kunduz non fanno rumore; perché conferma, soldi alla mano, il patto militare con Israele, dice Renzi, «luminosa democrazia in Medio Oriente», proprio lì dove la «luminosa democrazia» occupa militarmente territori palestinesi contro la volontà di due Risoluzioni dell’Onu e del mondo intero. Con ormai un corrompimento della scena che vede le leadership palestinesi impotenti a fermare le colonie israeliane che cancellano la possibilità dello Stato di Palestina e incapaci dare una soluzione alla crisi; mentre una nuova gioventù alla deriva, disperata, sceglie la follia controproducente del gesto individuale criminale per rispondere alla «normalità» di una crudele occupazione militare. Resta da chiarire, su questo s’interrogherà il vertice Nato di Firenze del 26 novembre, come rendiconteremo all’Ue e che fine farà l’investimento italiano nel cordone sanitario della Nato eretto alla frontiera con la Russia nella crisi strumentale ucraina, adesso che Putin non è più il «nemico» principale.
Una cosa è evidente: siamo passati dal fiscal compact al fiscal combat. È una regressione epocale, dal secolo breve in cui lo stato doveva fare il welfare, regrediamo al XIX° secolo lungo, quello coloniale, quando lo Stato doveva fare la guerra: ora sappiamo perché non avremo i soldi per la sanità ma possiamo spenderli per i bombardieri-rottami F-35. Un messaggio grave contro chi oggi sarà in piazza a Roma per costruire la coalizione più importante, quella «per la pace e il lavoro».
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