Ecco perché gli estremisti colpiscono l’Occidente

Ecco perché gli estremisti colpiscono l’Occidente

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La tattica. Dalle Crociate alla spartizione coloniale sono tante le ragioni dell’ostilità di Daesh verso il Vecchio Continente. L’ultima in ordine di tempo i raid contro il Califfato. In un libro dello stratega islamista Abu Bakr al-Naji le regole per destabilizzare attraverso il terrore. “Mirare all’economia”, “polarizzare”, “scatenare il caos”. Un piano già applicato con efficienza spietata in Siria e Iraq
PIÙ di dieci anni fa, uno stratega islamista di nome Abu Bakr al-Naji scrisse un testo destinato a esercitare un’influenza straordinaria all’interno del movimento islamista. È un documento che consente di spiegare non solo la strategia perseguita negli ultimi cinque anni dallo Stato islamico e dai gruppi che lo hanno preceduto, ma anche la nuova predilezione di Daesh (l’acronimo arabo dell’organizzazione) per una campagna di attentati sanguinari in Europa. Il saggio di Abu Bakr al-Naji è quasi sconosciuto al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori.
L’Europa non è sempre stata un bersaglio dei militanti islamici. La prima ondata di violenze dell’estremismo islamista, negli Anni ‘80, lasciò quasi indenne l’Occidente. Solo negli Anni ‘90 i problemi del mondo islamico cominciarono a riversarsi sull’Europa. La Francia uno fu uno dei Paesi più pesantemente colpiti, perché la sua ex colonia, l’Algeria, precipitò in una guerra civile terrificante. L’apice arrivò nel 1994-1995, ma il numero di vittime, grazie al cielo, rimase contenuto.
Alla fine del decennio, al-Qaeda lanciò il suo nuovo brand di jihad globale, prendendo di mira il “nemico lontano”, gli Stati Uniti e l’Occidente, invece del «nemico vicino », i regimi locali del Medio Oriente. Il gruppo lanciò una serie di attacchi che culminarono negli attentati dell’11 settembre, che uccisero 3.000 persone. Seguirono gli attentati di Madrid e di Londra.
Lo Stato islamico, invece, è arrivato agli attacchi contro l’Occidente per una strada diversa. Al Qaeda, almeno in quella fase, non cercava di conquistare e conservare un territorio, ma perseguiva una strategia di istigazione, formulata da un uomo, Osama bin Laden, che aveva sempre nutrito interesse per i media e la propaganda.
Daesh non è altrettanto sofisticato nella sua strategia: il suo primo obbiettivo è conquistare territori e risorse fisiche, e i suoi attentati in Europa sono un’estensione del desiderio di rimanere fedele al proprio motto: persisti e allargati.
È qui che entra in gioco l’analisi strategica di Abu Bakr al-Nadji. La sua opera è stata soprannominata “Il management della ferocia” ed è un manuale per la fondazione di uno Stato islamico, e in prospettiva di un nuovo califfato. È stato pubblicato su Internet nel 2004 e continua a costituire un punto di riferimento per gli estremisti. Pare che sia una lettura raccomandata per i comandanti dell’Is.
Il testo descrive tre fasi di una campagna. La prima è la nikaya, in cui forze irregolari conducono una guerra non convenzionale che include tattiche terroristiche per distruggere il controllo delle autorità locali su una certa area. La seconda è il tawahhush, la creazione di una guerra civile
per destabilizzare la zona presa di mira. Infine c’è il tamkin, quando i guerriglieri prendono il controllo della zona e, offrendo a popolazioni disperate una forma approssimativa di sicurezza, riescono a imporre la propria autorità e consolidare una base più durevole.
Lo Stato islamico ha applicato questa strategia con spietata efficienza in Iraq, in Siria e in altri posti. Crea il caos attraverso la violenza e sfrutta ogni spaccatura, ogni tensione sociale in una certa comunità. Fa leva meticolosamente sulle rivalità settarie, etniche, economiche, tribali e di altro genere, per avere l’opportunità di prendere le parti di una fazione contro un’altra. Una volta che la polarizzazione è avvenuta, tutto quello che resta da fare è assicurarsi che la parte con cui si è schierato prevalga.
Ci sono molte ragioni che possono spiegare perché Daesh abbia optato per una strategia più globale, e in particolare perché abbia deciso di colpire l’Europa. C’è la lunga storia di presunta «ostilità» dell’Europa verso l’islam, che nell’immaginazione di Daesh va dalle Crociate alla spartizione coloniale del Medio Oriente, e più in generale del mondo islamico. C’è la tradizione europea di laicismo, libero pensiero, e «libertà di pensiero e immoralità decadenti e corrotte».
L’intervento della Francia accanto alla Gran Bretagna, gli Stati Uniti e alcune potenze arabe nella campagna di bombardamenti in Iraq e in Siria è un’altra ragione. È quella indicata nella dichiarazione diffusa sabato dall’Is. La difficoltà pratica di colpire gli Stati Uniti o gli interessi degli Stati Uniti è evidente: Al Qaeda ci ha provato per un decennio o più senza riuscirci; l’Europa è un obbiettivo meno pregiato, ma più accessibile.
Senza contare che Daesh, in Europa, può contare su una via d’accesso che negli Stati Uniti non ha: le centinaia di veterani che rientrano in patria. Dei 1.500 cittadini francesi che si ritiene siano andati a combattere in Siria e in Iraq, 140 sarebbero morti e circa 250 avrebbero fatto ritorno. Nell’ultimo anno, la polizia e i servizi di sicurezza d’Oltralpe hanno sventato almeno sei piani di attentati che coinvolgevano veterani della guerra siriana. Uno di questi attentati sventati prevedeva di colpire una sala concerti di Tolone, sulla Costa Azzurra.
In Italia la minaccia è minore, ma comunque presente. La settimana scorsa è stata sgominata una rete di militanti curdi, anche se pare che i loro obbiettivi fossero diplomatici inglesi e norvegesi. L’Italia, tra l’altro, ha un ruolo limitato nella campagna di bombardamenti. Il numero di italiani che sono andati in Siria o in Iraq a combattere è una frazione rispetto a francesi, inglesi o tedeschi. Eppure una minaccia rimane. Lo Stato islamico parla di conquistare (o quantomeno attaccare) Roma. Se Parigi probabilmente è l’obbiettivo primario, la possibilità che ci siano attentati in altre parti d’Europa non è da escludere.
Perché quello che l’Is sta cercando di fare è applicare la strategia delineata nel “Management della ferocia” al continente europeo.
Il testo dice ai militanti di estendere i loro attacchi per prosciugare le risorse del nemico, o prendere di mira «direttamente l’economia », perché questo porterà «debolezza economica», determinerà una carenza di quei «piaceri mondani di cui queste società sono assetate», scatenando a sua volta «una competizione per queste cose» e «disparità sociali che innescheranno contrapposizioni politiche e disunità in tutti gli strati della società».
Tutto questo contribuirà a creare l’elemento essenziale della frammentazione. «Quando si applica la ferocia, comincia a emergere una polarizzazione spontanea fra le persone che vivono nella regione in preda al caos», dice; e questo, unitamente al collasso dell’economia, mette Daesh nelle condizioni di espandersi nell’area presa di mira.
È questa la visione alla base della campagna scatenata contro l’Europa. Sta a tutti gli europei, ora, dimostrare che Daesh si sbaglia e che non ci sarà nessun collasso dell’economia, nessuna polarizzazione e nessuna guerra fra settori della società.
( Traduzione di Fabio Galimberti)


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Per una cultura della pace: il servizio civile universale

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  Il ministro Mauro e l’esercito – foto: facebook.it

Ha fatto una lunga strada il percorso che ha portato dai processi intentati contro i primi obiettori di coscienza fino all’odierno dibattito sull’estensione del servizio civile. Si sono scritte numerose pagine positive che, pur tra mille contraddizioni, hanno realizzato uno dei pochi ammodernamenti e progressi in uno Stato per certi versi sempre più arretrato. L’anno scorso si sono festeggiati i 40 anni dal varo della legge sull’obiezione di coscienza, e all’ordine del giorno sono giunti i tagli pesantissimi che il governo Monti ha voluto/dovuto imporre in un ambito che coinvolge milioni di giovani e che spesso rappresenta un’occasione di formazione ma pure di lavoro. Il servizio civile sembra dunque arrivato al suo esame di maturità che diventa una prova per l’Italia intera.

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