La definizione è segnata all’origine da una contraddizione, non solo semantica. Stranieri per chi? Per il paese in cui vanno a combattere, è la convenzione. In realtà lo sono soprattutto per il paese da cui provengono. Perchè è verso questa realtà che essi si sentono estranei nel momento in cui aderiscono a un’ideologia transnazionale come quella islamista radicale. Facendola propria, essi entrano a far parte di una comunità che non riconosce altre appartenenze che quella politica e religiosa.
Manuel Valls, il primo ministro francese, dice che i foreign fighters «non hanno passaporto» e ipotizza di togliere loro la cittadinanza.
In effetti, uno dei gesti più consueti degli jihadisti transalpini che hanno lasciato il paese per le piane mesopotamiche è il rogo del passaporto. Simbolo di un appartenenza negata e di nuove lealtà. Rivolte a una “nazione” immaginaria, virtuale, senza territorio: almeno fino alla fondazione dello Stato islamico. Un atto che soddisfa l’aspirazione di molti radicali a costruire una realtà governata dalla sharia, a “ farsi Stato”.
Una scelta, quella di tagliarsi definitivamente i ponti alle spalle bruciando il passaporto che, però, non tutti i foreign fighters compiono. Per alcuni di loro il passaporto rimane un strumento funzionale alla costruzione di un’identità che ritengono di poter coltivare anche nei paesi occidentali. A cui guardano come realtà de-territorializzata, come semplice spazio sociale. Da qui l’idea che si possa tornare anche nel paese precedentemente abbandonato, vivendovi come se si fosse altrove, mantenendo i legami reali e virtuali con i propri “fratelli”. In una strada di quartiere o in Rete. Passando o tornando così, per chi guarda dal punto di vista della sicurezza, dallo status di foreign fighter a quello dihomegrown, “cresciuto in casa”.
La generazione politica che aveva frequentato i campi di addestramento in Afghanistan di Al Qaeda non aveva questo tipo di mobilità.
Non erano molti quelli che dopo un soggiorno ai piedi dell’Hindu Kush , tornavano in Europa. Piuttosto si dirigevano ciclicamente verso altri luoghi della jihad, in una sorta di pellegrinaggio panislamista combattente. La generazione politica jihadista attuale, sopratutto quella di origine europea, è molto più flessibile, anche sembra delimitare lo spazio di movimento. Non è un caso che tra le migliaia di giovani francesi coinvolti in questi anni nella filiera siro-irachena, molti siano tornati in Europa.
Bisogna abituarsi a pensare che, come non esiste un profilo tipo di foreign fighter – lo sono giovani cresciuti in cupi spazi metropolitani e tranquilli borghi periferici, piccoli delinquenti e ex-militari di professione, laureati e giovani segnati da precoci abbandoni scolastici, disoccupati e occupati, uomini e donne – così anche le loro traiettorie cominciano a diversificarsi.
Se i martiropatici aspirano a morire in Siria e Iraq, altri tornano a casa. Alcuni ritengono, pur non negandola, conclusa quell’esperienza. Altri restano in sonno, in attesa che una circostanza, interna o internazionale, o un contatto ritrovato, li riconduca sulla via della jihad. Qualcun persegue, invece, l’idea di fare della “terra della perversione” un campo di battaglia: la dimestichezza con armi e esplosivi glielo consente. In ogni caso chi decide di “immolarsi” nella jihad è attento a non attivare cellule troppo larghe.
La chiave della jihad della vita quotidiana, quella che fa improvvisamente comparire un nucleo di uomini armati in un locale o in una redazione, è la miniaturizzazione del gruppo. Tanto è più piccolo e compartimentato , tanto è meno infiltrabile. Per questo non è infrequente scoprire che la cellula minaturizzata è formata da fratelli, parenti, amici stretti.
Dei foreign, o insider, fighters, sentiremo parlare ancora a lungo.