Sciopero dei supermercati I lavoratori: non siamo schiavi

Sciopero dei supermercati I lavoratori: non siamo schiavi

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ROMA. Sabato «nero» per lo shopping e il rifornimento settimanale al supermercato. Oggi riempire il carrello della spesa, comperare un vestito nuovo o cambiare divano potrebbe rivelarsi un’ardua impresa: i dipendenti della grande distribuzione e delle cooperative e i colleghi dei piccoli negozi scioperano per il mancato rinnovo del contratto, scaduto 22 mesi fa. Auchan, Ikea, Carrefour, H&M, Oviesse, Coin, Zara, le Coop — fra altri — ma pure il negozietto sotto casa sono a rischio code e disagi. Un’importante quota del settore commercio, ma non la totalità: a protestare, infatti,sono i dipendenti delle grandi catene aderenti a Federdistribuzione, a Distribuzione cooperativa (le coop “bianche” e quelle “rosse”) e i negozi Confesercenti. Non il “mondo” Confcommercio, che a giugno ha già firmato un nuovo contratto con Cgil, Cisl e Uil, prevedendo un aumento medio a regime (2018) di 85 euro lordi al mese.
È da lì che i sindacati vorrebbero partire: «Fatte salve le specificità sulle quali siano pronti a parlare nei contratti integrativi, il lavoro è lo stesso e il trattamento deve essere omogeneo — dice Maria Grazia Gabrielli, segretario generale della Filcams Cgil — Non possiamo creare disparità e alimentare un
dumping fra imprese e lavoratori che onestamente si fa fatica a comprendere». Ma quella «base Confcommercio» alla quale i sindacati si ispirano, alle grandi catene non piace. E nemmeno ai piccoli negozi della Confesercenti. Entrambi rivendicano diversità legate alle dimensioni: più grandi i primi, più piccoli i secondi. «Le regole stabilite in quel contratto non vanno bene per noi, siamo realtà industriali, creiamo linee di prodotto. Cosa abbiamo da spartire con i dettaglianti? », dicono a Federdistribuzione.
In realtà la spaccatura fra grandi e piccoli non è così netta. Lo dimostra il fatto che Conad, Crai, il Gigante e tutte le grandi catene dell’elettronica (da Trony a Mediaworld), già applicano il contratto Confcommercio. Il che fa dire al suo direttore generale Francesco Rivolta che «dalla frammentazione non possono venire che danni: le esigenze della grande distribuzione sono perfettamente contemplate dal nostro contratto cui fanno riferimento 3 milioni di lavoratori, grande distribuzione compresa ».
Che il nodo non stia negli 85 euro, ma nella maggiore flessibilità richiesta per ottenerli lo dice chiaro e tondo il presidente di Federdistribuzione Giovanni Cobolli Gigli. «Non abbiamo preclusioni a riconoscere quella cifra, purché erogata nel triennio 2016-2018 e accompagnata da forme di sostenibilità, flessibilità e produttività» spiega. «Vogliamo riprendere il negoziato per definire un accordo che rispecchi le specificità del nostro settore e tutelare in questo modo occupazione e investimenti ». Fra le principali richieste dei datori di lavoro, quelle che riguardano una maggiore mobilità fra negozi e mansioni e orari più elastici, in particolare nel fine settimana. Chi oggi lavora solo nel week end, per esempio, fa otto ore, ma solo il sabato o la domenica. La grande distribuzione vorrebbe poterne fare 4 più 4. «Ma quale flessibilità, qui vogliono la schiavitù!», dice D.F. dipendente in una grande catena del vestiario. «Vi spiego come funziona la mia giornata: io per fare sette ore e mezzo timbro alle 9 e mezzo del mattino e chiudo alle nove di sera perché la pausa pranzo dura tre ore. Tutta la fase di minor afflusso alle casse. I contratti del week end non esistono più: i nuovi assunti sono chiamati a fare tutte le domeniche, se serve. Chi lavora part — time lo fa ad orari spezzati, sta fuori tutto il giorno e non può cercare altro, nei supermercati h24 si lavora di notte. Di flessibilità ce n’è già tanta, ora vogliono renderci schiavi».


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Non è un problema tecnico. Non c’era bisogno di particolari competenze ingegneristiche o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto fu presentato in pompa magna, che il piano «Fabbrica Italia» stava sulle nuvole. Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle 650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli destinati all’esportazione di cui «300.000 per gli Stati Uniti» (sic!), quel raddoppio o poco meno delle unità  commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila) in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi di euro d’investimenti in Italia (i due terzi dell’intero volume mondiale del Gruppo Fiat!), senza uno straccio d’indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul tavolo verde.

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