LONDRA. Una coppia della classe media ha due bambini ma desidera aiutare il prossimo, perciò adotta due orfanelli. Poi pensa: se abbiamo cambiato la vita di due bambini, perché non possiamo farlo per quattro? Così ne adotta altri due. Quindi altri dieci. Adesso la coppia ha venti figli adottivi, molti dei quali vittime di abusi o sofferenti per gravi disabilità. Quando sentiamo o leggiamo sui giornali casi simili, il primo istinto è provare ammirazione per tanto coraggioso altruismo. Il secondo è chiedersi se non sia un po’ esagerato, se non riveli un’ossessione o qualche oscuro problema personale. Un libro uscito in questi giorni in Inghilterra e in America racconta il caso di Sue ed Hector Badean, la coppia con venti bambini, e quelli di altri idealisti che fanno scelte eticamente encomiabili ma sicuramente drastiche: aprire un lebbrosario in India e andarci con i propri figli, esponendoli al rischio di un contagio; donare in beneficenza tutto quello che si ha, al punto di dover rovistare nella spazzatura per sfamarsi; abbandonare un lavoro che ti piace, ma è pagato male, per farne uno che non ti piace, ma è pagato molto e permette così di dare più soldi alla carità; donare un rene a un perfetto sconosciuto. Con Strangers Drowning: Voyages to the Brink of Moral Extremity , LarissaMacFarquhar, giornalista del New Yorker, cresciuta a Londra (il padre era deputato laburista, la madre redattrice dell’ Economist ), trasferitasi in America con la famiglia a sedici anni, mette il dito su un fenomeno del nostro tempo: l’idealismo impossibile. La generosità come spinta irresistibile.
Vengono in mente Bill Gates, l’uomo più ricco della terra, che regala in beneficenza metà del patrimonio e si prepara a donarlo quasi tutto, privando i figli dell’eredità; o Malala, la ragazzina pakistana che rischia la propria vita e quella dei familiari per difendere il diritto delle donne all’istruzione; o l’italiano Gino Strada, che vive negli ospedali di Emergency in paesi afflitti da guerra o epidemie, lontano da affetti familiari. Gli esempi in materia affondano nella storia della nostra civiltà, da Madre Teresa di Calcutta tra i lebbrosi fino a San Francesco, nato negli agi, che si spoglia di tutto per stare tra i poveri.
Ma il libro della MacFarquhar non si occupa di ricchi filantropi o personaggi famosi, si concentra su persone ordinarie che fanno cose straordinarie. Il titolo viene dall’apologo di un filosofo australiano contemporaneo, Peter Singer: se vediamo un bambino che affoga in un fiume, tutti saremmo portati a cercare di salvarlo; ma se sappiamo che un bambino sta affogando dall’altra parte del mondo, non dovremmo lo stesso cercare di salvarlo, anche se non lo vediamo con i nostri occhi? Perché — chiede l’autrice — invece generalmente non lo facciamo? E come mai di solito guardiamo con scetticismo, se non con riprovevole sospetto, coloro che vanno in soccorso degli “sconosciuti che affogano”?
È innegabile che le vite di estremo impegno etico mettano a disagio chi non fa altrettanto: un recente sondaggio della Washington State University riporta una diffusa antipatia, per non dire ostilità, verso i cosiddetti “santi moralizzatori”. Non si tratta semplicemente di persone che si preoccupano per il prossimo, fanno donazioni ai poveri, predicano la solidarietà in nome di valori politici o religiosi, praticano il volontariato ogni domenica o due settimane all’anno: molti se non tutti possono aspirare a tali comportamenti senza dolorose rinunce personali. La questione riguarda piuttosto chi si dedica al virtuosismo come a una fede. Sono costoro che spesso vengono considerati dalla società come masochisti, fanatici, se non squilibrati: individui senza una vita, perciò pronti a sacrificare la propria o così pazzi da sacrificare anche le vite di chi gli è vicino, un coniuge, i figli. Non si usa dire che “la carità comincia a casa propria”? Allora non sarebbe più giusto preoccuparsi dei bisogni dei propri figli, prima di adottarne altri venti?
In fondo consolidate teorie bollano questi comportamenti come inutili o perfino pericolosi. «È una fortuna che pochi uomini agiscano in nome di un principio morale, perché è facile sbagliare morale e una persona ostinata che pensa di difen- dere un principio morale può fare enormi danni», ammoniva Kant. Quanto alla lotta alla povertà, insegnano gli economisti, il modo più efficace per combatterla non è diventare tutti poveri, bensì creare ricchezza: dunque lavorare, spendere, consumare. Eppure l’apologo sul bambino affogato “dall’altra parte del mondo” suona straordinariamente attuale nella nostra era globalizzata e digitale in cui tutti sanno tutto di tutti, in cui nulla è più invisibile al web: non per niente la foto del corpicino del piccolo Alan su una spiaggia della Turchia ha scioccato la comunità internazionale e smosso, almeno per un po’, le acque della politica. Parafrasando Dostoevskij, chiede Strangers Drowning , come ci si può dire cristiani in un mondo in cui i bambini soffrono — e in cui preferiamo spendere 200 euro in un negozio d’abbigliamento anziché comprare medicinali per salvare vite umane?
«I benefattori estremi non ci piacciono perché ci fanno sentire in colpa», riconosce il New York Times recensendo il saggio della MacFarquhar. «Sono persone senza la felice cecità che permette alla maggior parte della gente di non vedere l’insopportabile », scrive la giornalista del New Yorker. E tuttavia il suo libro non è un’esortazione a compiere le stesse scelte dei moralisti estremi: suggerisce soltanto di non farne uno stereotipo. «Alcuni di essi sono religiosi, alcuni no, alcuni hanno sofferto, alcuni no, alcuni sono felici, alcuni no, sono semplicemente gente come noi, per quanto diversissimi da noi», concorda il Financial Times . Non c’è bisogno di imitarli, insomma, ma non vanno nemmeno derisi, come conclude il Guardian . La loro esistenza svolge un’importante funzione: ricordandoci a che cosa voltiamo le spalle, quando non vogliamo vedere la sofferenza dell’umanità.