Perché legare i contratti alla pro­dut­ti­vità non funziona

Perché legare i contratti alla pro­dut­ti­vità non funziona

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Dopo il Jobs act, nella legge di Sta­bi­lità il governo intende inter­ve­nire ancora sul mer­cato del lavoro; con­te­stual­mente all’introduzione del sala­rio minimo, sosti­tuen­dosi alle parti sociali (ma tro­vando con­senso in Con­fin­du­stria), intende modi­fi­care il modello delle rela­zioni indu­striali, spo­stando il bari­cen­tro della con­trat­ta­zione dalla sfera nazio­nale a quella azien­dale (dove dovrebbe svi­lup­parsi anche il wel­fare inte­gra­tivo pri­vato).
Il decen­tra­mento con­trat­tuale viene moti­vato soste­nendo che le dina­mi­che sala­riali dovreb­bero essere con­nesse a quelle della pro­dut­ti­vità rile­vate in cia­scun posto di lavoro. Tut­ta­via, que­sta pro­po­sta è priva di solide argo­men­ta­zioni ana­li­ti­che, accen­tue­rebbe il nostro declino eco­no­mico e sarebbe social­mente dannosa.

Non v’è dub­bio che la cre­scita del Pil di un paese sia legata alla dina­mica della pro­dut­ti­vità, ma – si badi bene — a quella del suo com­ples­sivo sistema pro­dut­tivo. La cre­scita della pro­dut­ti­vità è par­ti­co­lar­mente legata al pro­gresso tec­no­lo­gico; tuttavia:

a) esso si applica in modo diso­mo­ge­neo nei diversi set­tori pro­dut­tivi e nelle sin­gole aziende;

b) i suoi effetti sulla pro­dut­ti­vità non neces­sa­ria­mente sono rile­va­bili la dove esso si genera;

c) le varia­zioni di pro­dut­ti­vità rile­vate in un’azienda comun­que tra­scen­dono l’impegno dei suoi lavoratori;

d) in ogni caso, anche sto­ri­ca­mente, le dina­mi­che sala­riali dei lavo­ra­tori di diversi set­tori non dipen­dono molto dall’evoluzione delle pro­dut­ti­vità misu­rate in cia­scuno di essi.

Ricor­dando che la pro­dut­ti­vità è un con­cetto fisico, cioè il rap­porto tra la quan­tità pro­dotta e la quan­tità di lavoro impie­gato, le ten­denze sto­ri­che mostrano che in alcuni set­tori (spe­cial­mente in quelli indu­striali che mag­gior­mente hanno incor­po­rato il pro­gresso tec­nico) la pro­dut­ti­vità è cre­sciuta rela­ti­va­mente molto. In altri (spe­cial­mente nei ser­vizi dove pre­vale il capi­tale umano) è cre­sciuta rela­ti­va­mente poco. Per esem­pio, per pro­durre un chiodo oggi occorre un impiego di lavoro «infi­ni­ta­mente» infe­riore rispetto a 2500 anni fa, ma il tempo neces­sa­rio a un docente per spie­gare il teo­rema di Pita­gora ad uno stu­dente non è cam­biato molto.

Se le dina­mi­che sala­riali nei due set­tori dipen­des­sero dall’evoluzione rela­tiva delle rispet­tive pro­dut­ti­vità, negli ultimi secoli i lavo­ra­tori metal­lur­gici dovreb­bero aver goduto di una cre­scita delle retri­bu­zioni «infi­ni­ta­mente» supe­riore a quella dei docenti. Natu­ral­mente non è stato così.

D’altra parte, il forte aumento della pro­dut­ti­vità nella pro­du­zione dei chiodi è dipeso anche dal fatto che in altre parti del sistema pro­dut­tivo (e sociale) con­ti­nuava ad essere inse­gnato e appli­cato il teo­rema di Pita­gora senza aumenti di produttività.

Il ruolo di set­tori come quelli dove si pro­duce ricerca di base, inno­va­zione, istru­zione e for­ma­zione è fon­da­men­tale per gli incre­menti di pro­dut­ti­vità dell’intero sistema, ma in essi la misu­ra­zione della pro­dut­ti­vità fisica e la sua spe­ci­fica attri­bu­zione a chi vi lavora per deter­mi­narne i salari è anche più problematica.

Dun­que, gli aumenti di pro­dut­ti­vità non si rive­lano neces­sa­ria­mente nei set­tori dove ven­gono gene­rati. Col­le­gare ad essi le dina­mi­che sala­riali è pro­ble­ma­tico anche se la pro­dut­ti­vità è misu­rata in ter­mini mone­tari, ad esem­pio, in ter­mini di fat­tu­rato per addetto; infatti la pro­dut­ti­vità viene a dipen­dere anche dall’evoluzione dei prezzi relativi.

Per il solo fatto che in un set­tore i prezzi aumen­tano più che in un altro, il suo fat­tu­rato per addetto risul­terà mag­gior­mente accre­sciuto, indi­pen­den­te­mente dalla pro­dut­ti­vità fisica. Ma i prezzi rela­tivi e il valore della pro­du­zione di cia­scun set­tore e azienda dipen­dono da fat­tori anche indi­pen­denti dalla produttività.

In primo luogo, i prezzi sono influen­zati pro­prio dalla distri­bu­zione del red­dito (cosic­ché il nesso cau­sale tra pro­dut­ti­vità e distri­bu­zione del red­dito s’inverte) la quale, a sua volta, dipende dalla forza economico-contrattuale-politica dei tito­lari di pro­fitti, ren­dite e salari. Ma gli equi­li­bri socio-politici non sono omo­ge­nei nei diversi set­tori, aziende e ter­ri­tori, anche in uno stesso paese.

In secondo luogo, i prezzi sono influen­zati anche da altre cir­co­stanze come le con­di­zioni di mer­cato (più o meno con­cor­ren­ziali) e anche que­ste sono diverse nei dif­fe­renti set­tori e ter­ri­tori di produzione.

Dun­que, pen­sare che i salari pagati in cia­scuna azienda deb­bano dipen­dere dalla pro­dut­ti­vità dei rispet­tivi lavo­ra­tori, non solo non cor­ri­sponde alla realtà con­so­li­data del modo di fun­zio­na­mento dei sistemi eco­no­mici, ma comun­que non costi­tui­rebbe un legame tra retri­bu­zioni e «meriti» pro­dut­tivi dei lavoratori.

Il valore mone­ta­rio creato da un’impresa dipende molto par­zial­mente dalla pro­dut­ti­vità fisica dei suoi lavo­ra­tori, la quale, peral­tro, più che dalla loro capa­cità e dispo­ni­bi­lità al lavoro, dipende dall’organizzazione pro­dut­tiva e dalle tec­no­lo­gie for­nite dall’imprenditore, e dalla ricet­ti­vità verso il pro­gresso tec­nico del set­tore in cui opera l’azienda.

La pro­po­sta di legare i salari alla pro­dut­ti­vità azien­dale e di pri­vi­le­giare la con­trat­ta­zione decen­trata, oltre che carente ana­li­ti­ca­mente, pre­senta due gravi con­tro­in­di­ca­zioni per la cre­scita e gli equi­li­bri sociali, spe­cial­mente nel nostro paese.

In primo luogo, il legame tra pro­dut­ti­vità azien­dale e salari accen­tue­rebbe la fram­men­ta­zione del sistema pro­dut­tivo: facendo per­dere di vista che l’aumento della pro­dut­ti­vità riguarda l’intero sistema pro­dut­tivo e non sin­gole sue parti; pre­miando i set­tori dove la pro­dut­ti­vità si rivela ma non quelli dove effet­ti­va­mente ori­gina; comun­que con­trap­po­nendo ciò che invece va integrato.

La seg­men­ta­zione con­trat­tuale cele­rebbe ulte­rior­mente che la com­pe­ti­ti­vità da recu­pe­rare nel nostro sistema pro­dut­tivo riguarda essen­zial­mente la sua qua­lità e capa­cità inno­va­tiva, le quali non dipen­dono dal costo del lavoro azien­dale – che comun­que incide rela­ti­va­mente poco sui prezzi — ma dal pre­va­lere di una logica e di un pro­getto d’assieme, inter­set­to­riale, di società e di lungo periodo che neces­sa­ria­mente deve coin­vol­gere le tre parti che ne hanno respon­sa­bi­lità: l’insieme delle imprese, i rap­pre­sen­tanti dei lavo­ra­tori e il governo.

In secondo luogo, i lavo­ra­tori impie­gati nei diversi set­tori pro­dut­tivi con­vi­vono in una stessa società e hanno biso­gni simili cosic­ché, se le dina­mi­che delle pro­dut­ti­vità azien­dali e set­to­riali come emer­gono dalle misu­ra­zioni pos­si­bili fos­sero for­te­mente diso­mo­ge­nee (come è nor­male che accada) e se le dina­mi­che retri­bu­tive fos­sero cor­ri­spon­den­te­mente diverse (come si vor­rebbe che fosse), si cree­reb­bero mag­giori dispa­rità e pro­blemi di coe­sione sociale, a comin­ciare da con­flitti e divi­sioni interni agli stessi lavoratori.

Ali­men­tare que­ste ten­denze disgre­ganti non gio­ve­rebbe allo svi­luppo del Paese; tut­ta­via, per quanto miope, potrebbe essere l’obiettivo poli­tico non secon­da­rio asso­ciato alla pro­po­sta del decen­tra­mento contrattuale.



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