Ttip. L’Europa rischia tutto tra Stati uniti e Cina
In ogni riflessione e tentativo di spiegare l’importanza e la rilevanza del Ttip da parte dei suoi sostenitori, aleggia la presenza della Cina. I negoziati sul trattato commerciale tra Europa e Stati uniti — il Transatlantic Trade and Investment Partnership — si basano infatti sulla necessità per le due parti, come viene ripetuto in continuazione, «di tenere il passo della globalizzazione», sostenendo le proprie economie dagli attacchi frontali dei paesi in via di sviluppo e dalle economie galoppanti, in particolare quella cinese.
La questione di fondo, insieme a molti elementi che rendono il trattato potenzialmente dannoso per ambiente, diritti del lavoro, sicurezza alimentare e gestione delle informazioni personali, sarebbe da ritrovare nella necessità di creare un mercato capace di fronteggiare le sfide del futuro.
È su questa retorica che si basa la strategia europea, per quanto le posizioni non siano univoche, come dimostrato di recente dai «malumori» francesi.
L’Europa, però, si trova costretta a negoziare con gli Stati uniti da una posizione non certo di forza. Come confermato off the record anche da esponenti del Ppe, che pure è in generale a favore dell’accordo e che teme più di ogni altra cosa l’ottenimento da parte cinese dello status di «economia di mercato» (timori condivisi anche dai socialdemocratici), negoziare da posizioni di debolezza, significa andare verso un trattato che non favorirà certo l’economia europea.
La posizione di forza, dall’altra parte, degli Stati uniti si è andata sviluppando soprattutto in tempi recenti. Unitamente ad una ripresa economia (dovuta a molteplici fattori) Washington ha potuto contare su due «successi»: la conclusione dei negoziati del Tpp e lo scandalo Volskwagen.
Posizioni di forza
Il Tpp, per quanto secondo alcune fonti americane sia stato un negoziato al ribasso per gli Usa (specie a livello di sistema tariffario), ha un’importanza geostrategica fondamentale per gli Stati uniti. L’accordo economico con i paesi asiatici, esclusa la Cina, permette a Obama di puntellare la propria strategia pivot to Asia da un punto di vista commerciale.
Si tratta di una risposta alle iniziative cinesi in termini di creazioni di strutture bancarie internazionali e ha permesso agli Stati uniti, non a caso, di annunciare a breve una sfilata della propria flotta proprio nel mar cinese meridionale, creando non poca irritazione nella controparte pechinese. Lo scandalo Volskwagen, ha invece permesso agli Usa di sottolineare come i propri standard di sicurezza, messi in discussione nei negoziati sul Ttip, non siano da meno di quelli europei.
Ma quanto emerge da un’analisi delle trattative è senza dubbio la debolezza europea, con il rischio di una marginalizzazione dovuta all’emergere di potenze regionali e al tentativo americano di riportare il mondo multipolare ad un bipolarismo basato sul conflitto– alleanza con la Cina. È ovvia, date queste condizioni, la perdita di peso strategico dell’Europa (e in particolare dell’Italia) nell’ambito degli equilibri mondiali. Un quadro che si evidenzia chiaramente nelle crisi internazionali, dove la posizione europea, complessivamente, non esiste e la presenza dei paesi europei è dovuta a iniziative dei singoli stati (leggi Francia e Germania).
La debolezza europea
Se gli Usa — in questo momento — sembrano meno interessati a spingere sul Ttip (per quanto ritenuto «necessario», come specificato dall’ambasciatore americano presso le istituzioni europee a Bruxelles), la Cina è concentrata da tempo sulle sue nuove rotte della Via della Seta (one road, one belt), tanto da un punto di vista terrestre, quanto marittimo. Itinerari commerciali che lambiscono l’Europa, ma non ne fanno il centro nevralgico.
Ecco dunque che l’Unione europea si trova in una posizione svantaggiata, senza tenere conto delle condizioni poste dagli Stati uniti.
Uno dei tanti esempi di questa mancanza di parità nella negoziazione è offerta dalla cosiddetta vicenda della protezione degli investimenti. La famosa clausola Isds — che attribuiva la possibilità alle aziende di rivalersi sulle leggi dello stato attraverso un tribunale privato e la cui eventuale sentenza non avrebbe avuto la possibilità di appello — è stata modificata.
«Proteggere gli investimenti»
All’Isds si è sostituito, almeno nelle intenzioni, l’Ics, l’Investment Court System, che nella volontà dei negoziatori europei dovrebbe «garantire che tutti i soggetti coinvolti possano confidare nel sistema».
Basata sugli stessi elementi fondamentali propri dei tribunali nazionali e internazionali, la proposta «riconosce il diritto dei governi di legiferare e garantisce la trasparenza e l’assunzione di responsabilità». In realtà come evidenziato da chi contesta il Ttip e in particolare dagli eurodeputati del Movimento 5 Stelle, «i privilegi riconosciuti agli investitori privati internazionali nel sistema Isds non sono stati eliminati nel sistema Ics: gli investitori stranieri (multinazionali) possono sempre intentare cause contro gli stati che continueranno così a subire la pressione delle lobby che, quindi, potranno minacciare liti in caso di lesione dei loro interessi facendo valere la violazione del Ttip. La formulazione contenuta nella proposta della Commissione sul sistema Ics non contiene alcuna clausola che specifica che gli investitori stranieri non hanno maggiori diritti sostanziali rispetto agli investitori domestici».
Stando a fonti europee e americane, però, anche questa soluzione prospettata dagli europei, non sembra risultare gradita a Washington.
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