Tra fango e pioggia verso Vienna

Tra fango e pioggia verso Vienna

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Arrestiamo Umani. In Ungheria una fitta schiera di militari con giubbotti antiproiettile e fucili mitragliatori imbracciati, sorvegliano il «sacro patrio suolo». Dalla Serbia all’Austria, la lunga e faticosa marcia dei profughi adesso si fa più dura con l’arrivo del maltempo e del freddo autunnale. Reportage attraversando i confini

La strada è fan­gosa. Si viag­gia tra i campi di grano. Una fitta e fasti­diosa piog­ge­rel­lina con­ti­nua a scen­dere inces­sante. Siamo in Ser­bia a pochi chi­lo­me­tri da Šid. Il con­fine croato è a pochi passi. Il valico è chiuso da anni. Non si passa più da lì dall’ingresso della Croa­zia nell’Unione euro­pea. La strada è traf­fi­cata, gli auto­bus con i pro­fu­ghi con­ti­nuano arri­vare. Si scende nel nulla.

In una tenda della Croce rossa della Voj­vo­dina alcuni uomini stanno seduti e fumano. Poco più in là su un ban­cone si distri­bui­sce dell’acqua. Ci sono i Medici senza fron­tiere, qual­cuno si fa medi­care un piede. Tutti hanno fretta di pro­se­guire il viag­gio. Alcuni volon­tari della Repub­blica ceca distri­bui­scono man­tel­line. Si sono orga­niz­zati su Face­book. Sono venuti alle porte dell’Unione euro­pea per aiu­tare la gente, ma anche per con­te­stare la posi­zione xeno­foba del loro governo.

Il cibo dei volon­tari
Per arri­vare al con­fine biso­gna fare un tratto a piedi in mezzo ai campi. I volon­tari si affan­nano a sten­dere sul fango delle coperte per non far spor­care troppo le per­sone, hanno per­sino cer­cato di costruire delle tet­to­rie con dei rami e dei teloni per dare un po’ di riparo ai migranti. Ogni tanto qual­cuno passa con un palo per non far accu­mu­lare l’acqua. Lo appog­giano poi sul car­tello che recita «Repu­blika Srbija», su cui è stato attac­cato un sacco per rac­co­gliere la spaz­za­tura. È l’unico segno della pre­senza dello stato, insieme ai tre poli­ziotti che sta­zio­nano sull’ultimo lembo di terra serba.

I volon­tari distri­bui­scono cibo e tè caldo, rag­grup­pano i pro­fu­ghi e li fanno met­tere in fila per due. A qual­che cen­ti­naio di metri ci sono i poli­ziotti croati. Prima di lasciarli andare, una volon­ta­ria spiega: «I poli­ziotti croati si com­por­te­ranno in maniera ami­che­vole con voi e vi trat­te­ranno bene. Non abbiate paura!». Il gruppo pro­cede verso la Croazia.

Campo di Opa­to­vac
Dall’altra parte del valico non ci sono ripari. Gli auto­bus e le camio­nette della poli­zia con­ti­nuano ad arri­vare inces­san­te­mente. Uomini, donne e bam­bini atten­dono pazienti. Con­ti­nua a pio­vere e a far freddo. Ven­gono por­tati al campo di Opa­to­vac, che dista pochi chi­lo­me­tri, per una som­ma­ria iden­ti­fi­ca­zione. La strut­tura sem­bra ben orga­niz­zata. C’è anche qual­che tenda riscal­data e qual­che doc­cia. Tutto pro­cede molto in fretta. Qual­cuno non rimane lì che poche ore, prima di venir cari­cato su un auto­bus o sul treno che lo por­terà verso l’Ungheria. Le cose sem­brano fun­zio­nare alla perfezione.

È evi­dente che Zaga­bria ha scelto di gestire l’emergenza orga­niz­zando il pas­sag­gio attra­verso il suo ter­ri­to­rio. Nes­suno più vaga per il paese, com’era acca­duto nei primi giorni. I pro­fu­ghi sono stati resi invi­si­bili e la scelta di farli pas­sare per un valico dismesso, e non per quelli prin­ci­pali, che avreb­bero potuto offrire strut­ture più ade­guate per gestire il pas­sag­gio, sem­bra la con­ferma più eloquente.

Mar­tedì 29 set­tem­bre. Con­ti­nua a pio­vere e a far freddo. Alle 11 in punto al pic­colo valico di Bara­n­j­sko Petrovo Selo, al con­fine tra Croa­zia e Unghe­ria, arri­vano dieci auto­bus cari­chi di pro­fu­ghi. Anche qui siamo in una zona peri­fe­rica di aperta cam­pa­gna.
Poco più in là è in arrivo un con­vo­glio fer­ro­via­rio con altre mille per­sone. I poli­ziotti croati hanno l’accortezza di far fer­mare il primo auto­bus sotto la tet­toia del con­fine. Le per­sone ven­gono fatte met­tere in fila per due.

Tran­sito in Unghe­ria
Un pie­dino scalzo sbuca da sotto una vec­chia coperta. Il bimbo piange. Mamma e papà cer­cano di cal­marlo. Il pic­colo non ne vuole pro­prio sapere di rima­nere avvolto in quello strac­cio. Alla fine vince lui. Una vec­chia signora trema dal freddo, sotto una man­tel­lina di pla­stica che la ripara dall’acqua. La poli­zia li accom­pa­gna sino alla linea rossa che separa i due paesi. Ai lati corre, tra i campi di grano, la lunga bar­riera fatta eri­gere per difen­dere l’Europa dai migranti. Alcuni poli­ziotti vigi­lano attenti di fronte ad una pesante strut­tura che chiude la strada. Le ante, su cui capeg­gia il filo spi­nato, al momento, sono aperte.

Una fitta schiera di mili­tari con giub­botti anti­pro­iet­tile e fucili mitra­glia­tori imbrac­ciati, sor­ve­gliano atten­ta­mente il sacro patrio suolo. «Lo chia­mano Schen­gen, asso­mi­glia ad Ausch­witz», com­menta iro­nico su Ista­gram, Ervin Hlad­nik Milhari, il miglior gior­na­li­sta slo­veno oggi in cir­co­la­zione, che assi­ste alla scena.

Non ci si può avvi­ci­nare. I poli­ziotti non appa­iono per nulla gen­tili. Non resta che osser­vare da lon­tano. I pro­fu­ghi ven­gono per­qui­siti minu­zio­sa­mente. Quando la lenta pro­ce­dura è finita ven­gono cari­cati su degli auto­bus. Pros­sima desti­na­zione Hegye­sha­lom, tra il con­fine austriaco e quello slo­vacco. Ci arri­vano con i treni. Dalla sta­zione devono fare una lunga cam­mi­nata sino a Nic­kel­sdorf, in Austria. Li attende un enorme campo profughi.

Verso Vienna
La strut­tura, di carat­tere tran­si­to­rio, appare otti­ma­mente orga­niz­zata. Decine di volon­tari, tra cui alcuni par­lano l’arabo, distri­bui­scono cibo e vestia­rio. Fuori dal campo cen­ti­naia di taxi atten­dono i pro­fu­ghi. Chi ha i soldi per pagare la corsa può andar­sene. Agli altri non resta che aspet­tare gli auto­bus che li por­te­ranno verso Vienna. La sen­sa­zione è quella di essere final­mente arri­vati in Europa.

Il con­fine tra Austria e Unghe­ria sem­bra quello di una volta tra Oriente e Occi­dente. La spac­ca­tura, dalla caduta del muro di Ber­lino, pro­ba­bil­mente non è stata mai così pro­fonda. L’emergenza pro­fu­ghi pare abbia fatto salire in super­fi­cie le con­trad­di­zioni di un’Europa unita in fretta, dove il rispetto dei diritti umani, della dignità delle per­sone o anche sol­tanto la com­pas­sione di fronte ad un bimbo che piange o che batte i denti per il freddo seguono scale di valori dif­fe­renti a seconda della longitudine.

Per ora il cor­ri­doio è aperto. Quello che appare evi­dente in que­sto momento è che se dovesse venir chiuso gli unghe­resi sem­brano tutt’altro che infa­sti­diti dal dover gio­care nuo­va­mente il ruolo di ante­mu­rale della cri­stia­nità, il resto del Bal­cani, pro­ba­bil­mente, potrebbe seguirli senza troppa fatica.

*Osser­va­to­rio Bal­cani e Caucaso



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