Tra le mani di due vecchi uomini, strette per un lungo momento tremante che è un addio, scivola e passa una rivoluzione che lascia posto a un’altra in 40 minuti. La Storia di Cuba passa da Fidel, che alle soglie dei 90 anni sembra più un tenero e vecchissimo frate che il fiero ribelle della Sierra, alle mani di Bergoglio, un argentino come il Che, ma disarmato. Tutto nel segreto di un incontro privato dopo la benedizione a 500 mila persone che tornano a sperare in un futuro del quale hanno paura.
Il passaggio fra le due rivoluzioni, sigillato da una visita privatissima che ha il sapore di una confessione e rafforza le voci di una possibile conversione del vecchissimo bambino educato dai gesuiti, avviene proprio nella piazza della Rivoluzione dove tutte le contraddizioni del XX secolo si sono incontrate, e la croce di Cristo ormai rimpiazza il profilo del Querido Comandante di ieri, Ernesto Guevara. Senza proclami né manifesti, papa Francesco vi ha portato con la propria figura e il proprio pontificato qualche cosa che neppure i predecessori sbarcati a Cuba, Karol il Polacco e Joseph il tedesco, avrebbero potuto portare: la esperienza personale, diretta, umana, “latina” dell’oppressione e della possibile liberazione nell’emisfero americano, non più passando per la canna dei fucili.
In un completo rovesciamento di ruoli, è il Papa educato dai Gesuiti che oggi porta a una nazione guidata da ex allievi dei Gesuiti come i due Castro il messaggio rivoluzionario. Ed è il leggendario, fragilissimo leader rivoluzionario a incarnare quel che rimane della sempre più flebile resistenza conservatrice, ma tutti, i Castro e Bergoglio come i cubani che cercano di reinventarsi una vita “dopo”, sono accomunati da un sentimento che non può essere espresso ad alta voce: la paura che il futuro dell’isola sia un disastroso ritorno al suo passato più ignobile.
La Chiesa Cattolica cubana, quella timida, marginale istituzione sopravvissuta in animazione sospesa a mezzo secolo di ostilità, limitata ad appena 300 preti per dodici milioni di abitanti, preclusa da ogni attività apostolica o educatrice, accusata di essere più complice che opposizione alla dittatura castrista, è oggi la sola istituzione che potrà, quando il collasso del regime e del partito vuoto sarà completato dalla scomparsa dei fratelli Castro, rappresentare per gli esclusi un’alternativa, una diga, un rifugio dall’assalto vorace e vendicativo dei capitali di ritorno.
Chi ha potuto conoscere e vivere un poco le giornate di questo lungo crepuscolo del patriarca cubano, dall’abbandono brutale nel 1991 dei burattinai russi che li avevano portati alle soglie dell’annientamento fino al riconoscimento reciproco fra Usa e Cuba di agosto e all’ormai inevitabile, prossima fine del Bloqueo , l’embargo, ha avvertito nella gente che interroga ansiosa il visitatore la vertigine di ansia che ha afferrato un popolo prossimo a cambiamenti radicali. La speranza che il ritorno massiccio degli yanquis , degli amati e odiati americani, porti benessere si tempera con il timore che i più deboli, tutti coloro che sopravvivono di stipendi e di assistenza pubblica, sprofondino nello stesso abisso senza fondo nel quale precipitarono i russi esclusi dal circolo dei potenti alla fine dell’Unione Sovietica.
Nel vuoto che la fine dei Castro e la frantumazione del socialismo cubano ormai sfatto apriranno, è la Chiesa cattolica l’unica possibile rete di sicurezza che raccoglierà famiglie e bambini nella violenta transizione fra le epoche. Parrocchie, scuole, ospedali, cliniche religiose, volontariato oggi chiusi o addirittura proibiti potranno rappresentare l’ultima spiaggia di una misericordia non soltanto spirituale. E Jorge Bergoglio, più di Karol Wojtyla, che aveva nella libertà religiosa e politica la propria stella cometa, più di Joseph Ratzinger, difensore strenuo della Fede e della ortodossia, ha, di fronte ai cubani, la credibilità di chi ha parlato duro contro l’ingordigia e le devastazioni del capitalismo e della finanza che proprio nell’America del Sud e del Caribe ha compiuto i propri disastri più crudeli.
Bergoglio invoca la «definitiva riconciliazione », come ha ripetuto anche il cardinale dell’Avana, Jaime Ortega Alamino. Guarda alla diaspora cubana, che ieri, molto più di quanto avvenne nel 1998 per Wojtyla e nel 2012 per Ratzinger, aveva approfittato dei nuovi collegamenti aerei aperti da Obama per unirsi ai parenti e agli amici sulla Piazza della Rivoluzione. Teme, invocando il perdono reciproco, che esplodano le vendette, i regolamenti di conti, gli odi sedimentati fra generazioni in quasi 60 anni di “muro”, anni che avevano certamente bloccato Cuba ma l’avevano insieme protetta nel suo guscio duro.
È precisamente questo messaggio di pace rivoluzionaria, perché costruita non soltanto sulla libertà spirituale e politica ma anche sull’equità sociale, ciò che sta rendendo unica la visita di Francesco a Cuba e sta inquietando il grande vicino del Nord che lo attende sul pulpito del Congresso. Papa Francesco sembra “comunista” soltanto a chi considera ogni appello alla giustizia e ogni condanna all’avidità finanziaria come un prodotto di ideologie totalitarie, ma nella Piazza della Rivoluzione, ieri nel mezzogiorno dell’Avana, la ruota della Storia si è rimessa in moto. Spinta dalle mani di un uomo che non controlla divisioni, ma fa tremare i grandi e sperare i piccoli.