MANTOVA . C’è una parola nella lingua zulù che Nelson Mandela ha reso famosa nel mondo: ubuntu e’ un termine difficile da tradurre, ma l’espressione che gli si avvicina di più è “l’insieme dell’umanità”, l’empatia. Wole Soyinka, poeta e scrittore nigeriano, nel 1986 premio Nobel per la Letteratura, la usa spesso nel suo ultimo libro, “dell’Africa”, uno dei testi più importanti fra quelli presentati al Festivaletteratura di Mantova. Mentre sulle pagine dei giornali e alla tv si susseguono le immagini dei profughi che cercano di arrivare in Europa, e’ impossibile non iniziare una conversazione con Soyinka senza parlare di ubuntu .
Le sembra una parola appropriata per le giornate che stiamo vivendo?
«È un’espressione che hanno spesso usato persone come Mandela e Desmond Tutu: volevano dire che qualunque persona sia in stato di necessità deve essere aiutata. Che la solidarietà è obbligatoria e che siamo tutti responsabili. Altrimenti perdiamo la nostra umanità. È una parola adeguata a queste giornate, a patto di metterla nella giusta prospettiva. È dovere dei paesi da cui i migranti fuggono, e mi riferisco in particolare a quelli africani, creare le condizioni sociali perché queste persone abbiano sempre meno motivi per scappare. Ed è dovere del mondo esterno capire che la relazione che ha avuto con l’Africa, il lascito del colonialismo è alla base delle migrazioni».
Cosa pensa della reazione dell’Europa di fronte ai profughi?
«Sono sorpreso che l’Europa non abbia capito prima quello che stava per accadere. Da tempo i rifugiati interni ai paesi dove si combatte erano milioni, era naturale che prima o poi la crisi si espandesse. Ora ci sono moltissime persone pronte ad affrontare una morte quasi certa per mare per la speranza di una vita migliore».
L’Europa manca dunque di prospettiva, di uno sguardo di lunga durata?
«Penso all’Africa, e Le rispondo che qualche volta è bello essere dimenticati, lasciati a risolvere i propri problemi: non si può sempre essere assistiti. Ma qualche volta l’attenzione serve. Le faccio un esempio: qualche anno fa il mondo si indignò per Amina, una donna che stava per essere lapidata per adulterio in Nigeria. Fu una cosa importante, perché anche quelli che fino a quel momento avevano fatto finta di nulla furono costretti ad ammettere che stava accadendo qualcosa di sbagliato».
Direbbe lo stesso del clamore suscitato dal rapimento delle ragazze di Chibok da parte di Boko Haram?
«Quella e’ una storia talmente grande che era impossibile da ignorare. Ha colpito tutti, perché ha richiamato alle sue responsabilità una società che non era stata in grado di proteggere delle ragazze nel luogo dove avrebbero dovuto essere più sicure, e un governo che non si è mosso in tempo. Ha costretto tutti ad aprire gli occhi su un fenomeno, che io chiamo del bokoharamismo, che era lì davanti a tutti: la diffusione di un gruppo che è incapace di guardare all’essere umano se non attraverso le lenti strettissime della sua visione religiosa estremista. Abbiamo visto l’intolleranza crescere sotto i nostri occhi e la religione diventare uno scudo per fare quello che si voleva. Lo abbiamo visto nel silenzio totale delle autorità: nessuno e’ stato chiamato a rispondere del fatto che qualche anno fa gruppi di estremisti abbiano messo Abuja a ferro e fuoco per protestare contro un concorso di bellezza. Nessuno ha pagato. Chibok e’ stato il caso più brutale. Il messaggio era: “facciamo ciò che vogliamo con quello che di più caro avete”. Con i riflettori del mondo addosso il governo non ha più potuto far finta di niente».
A 500 giorni da quel rapimento in Nigeria qualcosa e’ cambiato?
«Sta cambiando. Mai abbastanza per me, ma qualcosa si sta muovendo. La gente non dice più le stesse cose di prima, i politici stanno più attenti a giocare la carta delle divisioni religiose. Tutto questo non è più possibile dopo Chibok, come non è più possibile ignorare il fatto che la diffusione dell’estremismo è un problema reale».
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Wole Soyinka scrittore e poeta nigeriano premio Nobel per la Letteratura nel 1986