Disordine climatico: allerta sulle crisi umanitarie
Verso il vertice di Parigi. Hollande dà il via con grande pompa alla Cop21, che avrà luogo in Francia tra tre mesi. Oggi nel mondo ci sono più di 22 milioni di profughi climatici, che potrebbero salire a 250 milioni se non si fa nulla. C’è anche un legame con le guerre. L’obiettivo è un impegno preciso e finanziato per contenere sotto i 2 gradi il riscaldamento climatico (le ong chiedono 1,5 gradi). Ma siamo ancora lontani
Un tappeto verde sullo scalone dell’Eliseo, al posto di quello rosso tradizionale, rappresentanti politici, del mondo delle associazioni di base e di quello dell’impresa che cerca cosi’ di mostrare buona coscienza, persino una canzone di Paul McCarthy Love Song to the Earth, per un lancio in grande pompa ieri della Cop21 (Conference of Parties), la conferenza dell’Onu sul clima, che si concluderà a Parigi esattamente tra tre mesi (30 novembre-11 dicembre). François Hollande avverte: “sono in gioco le condizioni di esistenza dell’umanità” e “c’è un rischio di fallimento”. L’avvertimento non cade nel vuoto in questi giorni, perché numerosi studi mettono in luce il legame tra disordine climatico e crisi umanitarie: oggi, mentre l’Europa si lacera per accogliere i rifugiati delle guerre di Siria e Iraq, che rappresentano appena lo 0,11% della sua popolazione, nel mondo ci sono già 22,4 milioni di migranti per ragioni climatiche (dati 2013). Se non si fa nulla, diventeranno 250 milioni nel 2050, avvertono numerosi studi. Nel 2014, l’87% delle catastrofi naturali sono state legate al clima. In Bangladesh, per esempio, paese a rischio a causa della minaccia già in opera della sommersione delle terre, ogni giorno 10mila persone fuggono e si rifugiano nella capitale. L’innalzamento del livello dei mari e degli oceani è destinato a causare milioni di profughi (tra il 1870 e il 2000, il livello degli oceani si è elevato di 18 cm, di cui 6 negli ultimi vent’anni e potrebbe crescere tra i 26 e gli 82 cm entro il 2100). Se tutto continua come adesso, scrivono ong e associazioni umanitarie in una lettera aperta alla Cop21, “il disordine climatico continuerà ad aggravare le crisi legate all’insicurezza alimentare e idrica, esponendo 600 milioni di persone supplementari alla fame entro il 2080, e il 40% della popolazione mondiale a penurie di acqua entro il 2050”. I disordini climatici sono anche delle concause delle guerre, secondo alcuni. La ong Care International, per esempio, ha affermato alla conferenza internazionale che si è tenuta mercoledi’ a Parigi sui legami tra disordine climatico e crisi umanitarie, con la presenza del ministro degli Esteri Laurent Fabius: “delle ricerche suggeriscono che il cambiamento climatico ha contribuito a favorire il conflitto in Siria. Tra il 2006 e il 2010, una siccità senza precedenti ha fortemente degradato le condizioni di produzione agricola, cosa che ha provocato l’esodo di più di un milione di persone verso i centri urbani”. Le ricerche più concentrate sulle questioni militari non stabiliscono un legame di causa e effetto con le guerre, come ha messo in evidenza a questa conferenza una ricerca dell’Iris, ma sottolineano che, malgrado “i movimenti di popolazione legati alla presenza di un mutamento climatico non sono obbligatoriamente fonte di conflitti”, molto dipende dalle reazioni delle popolazioni delle terre di accoglienza. Una riflessione non molto rassicurante, alla luce delle reazioni di rigetto che si vedono in questi giorni in Europa. Fabius ha sottolineato che “il disordine climatico non è solo un problema ambientale, ma è una minaccia per lo sviluppo, la salute, la sicurezza delle popolazioni, la pace nel mondo”. Il disordine climatico costa. Secondo fonti Onu, negli ultimi 20 anni, le perdite economiche legate a questo complesso fenomeno sono state di 862 miliardi di dollari nei paesi in via di sviluppo.
La Cop21 dovrebbe concludersi con la firma di un accordo internazionale, con impegni precisi per limitare il riscaldamento climatico globale al di sotto dei 2 gradi (le associazioni chiedono ora che i 195 stati presenti si impegnino per un aumento massimo di 1,5 gradi). Ma, ha avvertito Hollande, la strada è ancora in salita. Per il momento, solo 58 stati su 195 hanno inviato a Parigi la propria tabella di marcia, con impegni precisi anche sul finanziamento: molto al di sotto dei 100 miliardi di dollari l’anno necessari per lottare contro il fenomeno. I negoziati sono in corso, la Francia insisterà su questo tema all’Assemblea generale dell’Onu il 25–26 settembre. Ci sarà un incontro a Bonn dal 19 al 23 ottobre, poi il 15–16 novembre c’è il G20 a Antalya (Turchia). Dalla prima conferenza Onu sul clima a Stoccolma nel ’72, passando per “vertice della terra” di Rio (nel ‘92, la Convenzione è entrata in vigore nel ’94), a Kyoto nel ‘97, dove era stato approvato un Protocollo in vigore dal 2005, alla conferenza di Copenhagen (2009, accordo minimo, non vincolante, non firmato da tutti sull’impegno di mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2 gradi), a Durban (2011) e Lima nel 2014, i passi avanti sono stati modesti, insufficienti per fronteggiare la gravità della situazione. Eppure il Giec, il gruppo di esperti intergovernativo attivo dall’88, continua a mettere in guardia e prevede, se tutto continua come ora, un riscaldamento che potrebbe arrivare a +4,8 gradi. I maggiori responsabili sono Usa, Cina e Ue, che causano con le loro emissioni il 50% dell’effetto serra.
Lottare contro il disordine climatico è un’azione globale, ma anche fatta di una somma di iniziative nazionali e locali. La Francia, per esempio, che non ha avuto il coraggio di mettere la carbon tax sui camion (il governo ha indietreggiato di fronte a proteste anche violente, soprattutto in Bretagna), ieri ha annunciato un piccolo gesto: vengono abolite le sovvenzioni all’export per le centrali a carbone (il principale costruttore francese è Alstom, che sarà costretto a investire in energie durevoli). La corsa al contenimento dell’effetto serra puo’ avere anche risvolti altamente inquietanti. Da Londra, per esempio, ieri il ministro Osborne ha difeso il nucleare, “buono per l’effetto serra” (del resto, in Francia la più vecchia centrale, Fessenheim, sfruttata dal ’78, non chiuderà l’anno prossimo, come promesso, ma aspetterà di fatto l’apertura dell’Epr di Flamanville, il reattore nucleare di terza generazione che accumula ritardi nella costruzione e non dovrebbe essere attivo prima del 2018). Anche la Francia non ha nessuna intenzione di abbandonare il nucleare, che permette al paese di avere livelli accettabili di emanazione di gas a effetto serra.
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