Il muro ungherese, viaggio alla fine dell’Unione europea

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La rotta balcanica. Kübekháza, dove termina la barriera di filo spinato voluta da Orbán, è la città magiara che unisce le frontiere di Ungheria, Serbia e Romania, attraversate negli ultimi sei mesi da oltre 100 mila richiedenti asilo. Dentro e fuori Schengen, seguendo i migranti che sognano una vita migliore

Nem­meno i mili­tari ci cre­dono dav­vero. Il capo chino, la fronte attra­ver­sata da con­ti­nue righe di sudore, pas­seg­giano con­tro­vo­glia lungo la linea imma­gi­na­ria sulla quale hanno ordine di issare una paliz­zata. Un alto mac­chi­na­rio bianco, cin­go­lato, li segue tra i campi di gira­sole e gra­no­turco, infil­zando con rego­la­rità il ter­reno e lascian­dovi cadere ogni quat­tro metri un palo di acciaio alto altret­tanti. Biso­gnerà poi sro­to­lare la rete zin­cata, men­tre il filo spi­nato è già stato arric­ciato, come fosse dello zuc­chero filato, in una nuvola sof­fice e appun­tita. La si sdraia per terra, nel mezzo del nulla.

Siamo a Kübe­kháza, il comune unghe­rese che con­fina al tempo stesso con la Ser­bia e con la Roma­nia e che ospita nien­te­meno che il punto finale del «muro di Orban». L’ultimo pilone della bar­riera di 175 chi­lo­me­tri è già stato pian­tato e basta guar­darlo per per­ce­pire l’assurdità di tutte que­ste ore di lavoro. Alle sue spalle, si apre la pia­nura pan­no­nica con la sua sfac­ciata indif­fe­renza. Il muro fini­sce in un prato. E come se non bastasse, qual­che metro più in là, il monu­mento che cele­brava il punto d’incontro dei tre paesi è rima­sto oltre la rin­ghiera, dall’altra parte del muro. Geo­gra­fi­ca­mente, l’Unione euro­pea ini­zia qui. Ma moral­mente sem­bra finire.

Subo­tica
L’appuntamento è per mez­zo­giorno alla sta­zione degli auto­bus di Subo­tica, una città dell’estremo Nord della Ser­bia, in cui passa sia l’autostrada E5 diretta a Buda­pest, sia la fer­ro­via pro­ve­niente da Bel­grado. In pro­gramma c’è un viag­gio den­tro e fuori l’area Schen­gen, nei pressi di una fron­tiera che negli ultimi sei mesi è stata attra­ver­sata da oltre 100.000 rifu­giati, pro­ve­nienti per­lo­più dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan.
La prima tappa è la cosid­detta «giun­gla» di Subo­tica, un’ex fab­brica di mat­toni, dove chi risale la «rotta dei Bal­cani» si ferma per una notte o due prima di ripar­tire a piedi per l’Ungheria. Quando arri­viamo, tra le strut­ture abban­do­nate e l’erba alta, se stanno sdra­iate poco più di cento per­sone, ma qual­che set­ti­mana prima — assi­cu­rano gli atti­vi­sti — ce n’erano almeno 400. Dis­se­mi­nata di spaz­za­tura e sotto un sole impie­toso, la «giun­gla» emana un odore pun­gente. «La disca­rica comu­nale dista solo un cen­ti­naio di metri da qui: abbiamo paura che arri­vino i ratti e che por­tino delle malat­tie», afferma Dali­bor Karada, un volon­ta­rio dell’associazione serba «Cen­tro per l’integrazione e la tolleranza».

Dalla «giun­gla» di Subo­tica, il cen­tro sto­rico dista tre chi­lo­me­tri. Ci si può andare a piedi, seguendo verso Nord i binari che poi pro­se­guono per l’Ungheria (la fron­tiera è a circa 11km), oppure in taxi o pagando qual­che pri­vato. Al muni­ci­pio, l’assessore agli Affari sociali, Mili­mir Vuja­di­novi, è al cor­rente della situa­zione, ma la sua giunta — dice — «fa quel che può», a mag­gior ragione che «que­sto è un pro­blema dell’UE, non della Ser­bia. Dal 2014, il comune stan­zia ogni anno circa 23.000 euro (su un bilan­cio totale di 40 milioni) per l’accoglienza di qual­che bam­bino negli asili pub­blici o per il tra­sporto dei rifu­giati che lo desi­de­rano verso gli spazi di acco­glienza. Ma sono ovvia­mente pochis­simi quelli che si avval­gono di que­sti pro­grammi, la mag­gior parte vuole solo pro­se­guire verso l’Unione europea.Altre Ong pas­sano nel giro di poche ore, offrendo assi­stenza sani­ta­ria di base o por­tando qual­che bene di prima neces­sità ai rifu­giati, altri­menti abban­do­nati a se stessi. «Ave­vamo chie­sto al comune di por­tare l’acqua pota­bile all’interno dell’ex fab­brica, ma hanno deciso di siste­mare delle docce oltre la strada», rac­conta Dali­bor. Per riem­pire una bot­ti­glia d’acqua, biso­gna dun­que lasciare il campo e cam­mi­nare per qual­che minuto, attra­ver­sando un tratto d’asfalto sbiadito.

Kan­jia
Qua­ranta chi­lo­me­tri ad Est, a Kan­jia, un punto di rice­zione è stato inau­gu­rato appena due set­ti­mane fa, pro­prio con l’obiettivo di svuo­tare i cen­tri città della zona. Gli auto­bus della poli­zia por­tano in con­ti­nua­zione nuovi arri­vati, che ven­gono siste­mati den­tro ampie tende verdi, for­nite di tavoli da sagra. All’interno del campo, ci sono ser­vizi igie­nici e una con­nes­sione ad inter­net, men­tre all’esterno uno stand pri­vato cuoce plje­ska­vice (ham­bur­ger) a ripe­ti­zione. «Non abbiamo letti, ma c’è spa­zio per sdra­iarsi — spiega Robert Lesma­j­ster, del Com­mis­sa­riato per i rifu­giati di Bel­grado — E comun­que sia, la mag­gior parte delle per­sone resta qui solo per qual­che ora».

«Noi par­ti­remo domani», dice fidu­cioso Ayham, men­tre tiene la mano a sua moglie Hadil. Seduta sul prato, que­sta cop­pia di siriani si sta ripo­sando dopo la lunga avven­tura. Tur­chia, Gre­cia, Mace­do­nia, Ser­bia. In treno, in bus, in taxi, a piedi. «Abbiamo cam­mi­nato per oltre 150km, in totale!», assi­cura Ayham. Hadil con­ferma sor­ri­dendo: «Siamo una super-famiglia!». Attorno a loro, ci sono le due sorelle non mag­gio­renni di lei, Hamsa e Idaia, così come il pic­colo Zain (il figlio della cop­pia) con la sua nonna materna Hafisa. «Anche il pas­seg­gino è venuto con noi fin da Dama­sco!», pro­se­gue il gio­vane papà, che nel 2012 aveva otte­nuto il bre­vetto da pilota, ma senza mai poterlo uti­liz­zare. Sono diretti in Ger­ma­nia, dove uno zio vive già da qual­che anno.

Calata la sera, men­tre Robert Lesma­j­ster con­ti­nua a illu­strare le regole del campo a chi entra, un folto gruppo varca l’ingresso in dire­zione oppo­sta. Sono soprat­tutto siriani, muniti di gps o smart­phone e con uno zaino o un bam­bino sulle spalle. Il con­fine unghe­rese è ad una quin­di­cina di chi­lo­me­tri da qui e per arri­varci si seguirà con­tro­cor­rente il corso del Tibi­sco (Tisza/Tisa) che taglia per­pen­di­co­lar­mente la fron­tiera. Alle nove, ci si incam­mina lungo la strada asfal­tata, men­tre le auto­mo­bili sfrec­ciano a fianco con gli abba­glianti accesi. La si segue per qual­che chi­lo­me­tro, poi si svolta a destra, pren­dendo una pic­cola discesa di ghiaia che porta all’argine.

È la prima sosta. Un ragazzo con un cap­pel­lino bianco detta le poche regole del viag­gio: «Non cam­mi­nate troppo sulla destra per­ché c’è il fiume e spe­gnete i cel­lu­lari». Si riparte sulla terra bat­tuta, nasco­sta tra gli alberi e la riva, men­tre le con­ver­sa­zioni pro­se­guono sot­to­voce. Omar, uno dei pochi ira­cheni pre­senti, chiede: «Sei spo­sato?». Nem­meno lui lo è — dice scuo­tendo la testa — ma spera, a breve.

Fa ancora caldo e l’umidità attira le zan­zare. Il sen­tiero è cosparso di bot­ti­glie di pla­stica vuote, segno che non siamo i primi a per­cor­rerlo. Gli agenti unghe­resi potreb­bero dun­que essere in agguato, oltre la fron­tiera. Che fare nel caso li si incon­tri? Le opi­nioni diver­gono. Farsi arre­stare signi­fica dover dare le pro­prie impronte digi­tali e rischiare, in seguito, di essere depor­tati in Unghe­ria dagli altri Stati mem­bri dell’Unione (come vor­rebbe il Pro­to­collo di Dublino II). Tut­ta­via, rifiu­tare la richie­sta di asilo alle auto­rità magiare com­porta il tra­sfe­ri­mento in Ser­bia. Tutti pre­fe­ri­reb­bero la terza via: pas­sare in inco­gnito fino in Austria. Ma è la meno probabile.

Pas­sata la mez­za­notte, all’ennesima pausa, un ragazzo si lascia cadere a terra, sfi­nito. Si chiama Mustafa e, da metà coscia in poi, la sua gamba destra lascia spa­zio ad una pro­tesi rigida. Non ce la fa più a con­ti­nuare. «Potete aiu­tarlo, per favore?», chiede il suo amico, che per mano tiene già la moglie e la figlia. La schiena di Mustafa è com­ple­ta­mente bagnata e lui ripete «yalla» a denti stretti. Lo si sol­leva in due e si riparte. Più il tempo scorre, però, più i bam­bini ini­ziano a lamen­tarsi ad alta voce. Alla fron­tiera man­cano pochi chi­lo­me­tri, ma ormai è buio pesto e anche i visi fami­liari si sono tra­sfor­mati in sini­stre sagome nere.
Il pianto di Zaka­ria buca il silen­zio verso l’una di notte, facendo sus­sul­tare tutto il gruppo. Subito, in quat­tro, cin­que pro­vano a cal­marlo, ma è inu­tile, il pic­colo non ha nem­meno due anni e grida sem­pre più forte, men­tre dalla fore­sta, oltre il fiume, arri­vano i latrati e gli ulu­lati dei cani. Ci vor­ranno venti minuti per­ché torni la calma. Nel frat­tempo, secondo chi ha il gps in mano, abbiamo pas­sato la fron­tiera e siamo uffi­cial­mente nell’Unione. Ma non c’è tempo per festeg­giare: all’orizzonte, un attimo dopo, appare una miste­riosa luce blu e ci si ferma di nuovo. Entrare nella fore­sta, con­ti­nuare sulla stessa via, nel dub­bio si aspetta.

Quando l’alone lumi­noso si spe­gne, i rifu­giati deci­dono di pro­se­guire lungo l’argine. Noi, però, dob­biamo tor­nare indie­tro, per­ché andare oltre potrebbe voler dire essere scam­biati per dei traf­fi­canti di esseri umani.

Asot­tha­lom
Dal lato unghe­rese della fron­tiera, di prima mat­tina, Bar­na­bas Héredi viag­gia sulla sua Lada bianca alla ricerca di chi ha attra­ver­sato il con­fine durante la notte. E’ uno dei «ran­gers» che il comune di Ásot­tha­lom ha assunto per aiu­tare la poli­zia locale. Una volta inter­cet­tato un gruppo di rifu­giati, il suo com­pito è di con­durli ad uno dei vari «punti di rac­colta», dove le forze dell’ordine pas­se­ranno più tardi. Davanti alla sua mac­china, alle 8:30, cam­mi­nano già diverse decine di per­sone, per­lo­più afghani, par­titi dalla Ser­bia dieci ore prima. «Siamo in Unghe­ria, vero?», domanda Aziz. Quando annui­sco, tira un sospiro di sol­lievo. Bar­na­bas li segue a marce ridotte, con le quat­tro frecce lam­peg­gianti. A guar­darlo, sem­bra una sorta di pastore moto­riz­zato.
«Che suc­ce­derà ora?», chiede il ven­ti­duenne Ali, ori­gi­na­rio del Nord dell’Afghanistan e ormai giunto allo spiazzo già pre­si­diato dagli agenti. La poli­zia sta cari­cando tutti i pre­senti su diversi auto­bus diretti a Seghe­dino (Sze­ged), la prima grande città unghe­rese (circa 160.000 abi­tanti). Dopo aver com­ple­tato la richie­sta di asilo, i rifu­giati rice­ve­ranno un foglio che gli per­met­terà di viag­giare nel Paese, in teo­ria per rag­giun­gere uno dei cen­tri di acco­glienza. Ma la mag­gior parte di loro userà que­sto lascia­pas­sare per pro­se­guire verso l’Europea occi­den­tale. «Io vor­rei andare a stu­diare in Fin­lan­dia», rac­conta Ali. «Me lo ricor­derò per sem­pre que­sto viag­gio», esclama.

L’ultima tappa è dun­que Sze­ged, dove par­tono i treni per Buda­pest. Al quar­tier gene­rale della poli­zia di fron­tiera il coman­dante Gabor Ebe­rhardt sta par­lando con una troupe tele­vi­siva di Vienna. «Instal­le­rete dei sen­sori ter­mici nei pressi del muro?», «Ci saranno degli agenti a pat­tu­gliare la fron­tiera?», chie­dono i gior­na­li­sti austriaci. «E quanti migranti sono già stati rispe­diti in Ser­bia?», doman­dano pre­oc­cu­pati. Nell’aria c’è un’ansia da ondata migra­to­ria. L’agente risponde, poi si scusa: «I vostri col­le­ghi stanno aspet­tando». C’è giu­sto il tempo per una foto ricordo assieme al poli­ziotto magiaro, poi gli austriaci par­tono.
Gabor Ebe­rhardt è respon­sa­bile di circa 45km di con­fine, attra­verso cui passa il 90% degli ingressi ille­gali nel paese. I suoi uomini — spiega — si occu­pano di arre­stare i rifu­giati e di assi­cu­rarsi che fac­ciano richie­sta di asilo. «Solo il 15% rifiuta di fare la domanda ed è dun­que ripor­tato in Ser­bia», afferma Ebe­rhardt, secondo cui le deten­zioni sono sem­pre fatte «nel rispetto della legge», ovvero «per un mas­simo di 36 ore», «in locali al riparo dal caldo» e per­sino «for­nendo cibo a seconda della reli­gione di cia­scuno». Ma le foto che la par­la­men­tare unghe­rese Tímea Szabó ha scat­tato a metà luglio all’interno dei cen­tri di Röszke e Sze­ged mostrano piut­to­sto delle gab­bie dove i mate­rassi sono get­tati sul pavimento.

Anche la sto­ria dei panini ad hoc pare non tenere. Alla sta­zione fer­ro­via­ria di Sze­ged, ad un quarto d’ora dalla sta­zione di poli­zia, gli atti­vi­sti del gruppo di soli­da­rietà ai migranti “Migszol” si limi­tano a offrire ai rifu­giati sol­tanto acqua e caffè. «Sul cibo non si fidano più degli unghe­resi: hanno già rice­vuto troppe volte della carne di maiale che avrebbe dovuto essere qualcos’altro», afferma Daniel Szat­mary. Que­sto gio­vane alto e robu­sto è uno dei 200 volon­tari che ogni giorno accol­gono le per­sone por­tate dalla poli­zia. Dal primo luglio, dispon­gono di una casetta di legno pre­si­diata quasi 24 ore su 24. In inglese e in arabo, for­ni­scono delle infor­ma­zioni sui pros­simi treni per la capi­tale, sui «veri» prezzi che dovreb­bero essere appli­cati dai tas­si­sti (che invece chie­dono fino a 400 euro per due ore di tra­gitto) e, più in gene­rale, su quello che aspetta chi è appena arri­vato a piedi dalla Serbia.

Alle 20:45, l’ultimo diretto per Buda­pest è arri­vato. I volon­tari del Migszol si affret­tano a dare gli ultimi con­si­gli: «Non usate le toi­let­tes quando il con­vo­glio è fermo» e «Non fumate in treno». Qual­cuno, eufo­rico, si distrae, ma gli atti­vi­sti insi­stono: «Sul serio, sono 50 euro di multa altri­menti!”. Si corre sulle scale che por­tano ai binari e, prima di salire, ci si pre­sta a qual­che scatto di gruppo. Poi il capo­sta­zione fischia e qual­cuno si affac­cia al fine­strino. Nella luce dorata dei lam­pioni, i tratti tesi della stan­chezza sfu­mano adesso nei primi sor­risi. La strada è ancora lunga per rag­giun­gere la Ger­ma­nia o la Sve­zia ma, sta­sera, i chi­lo­me­tri che restano sem­brano in discesa. E davanti a que­sto treno in par­tenza, il vento che ci spet­tina ha come un pro­fumo di rina­scita. Il bri­vido lus­suoso di un ritorno alla normalità.

* Osser­va­to­rio Bal­cani e Caucaso



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