ROMA . Sarà una concidenza, ma da quando i prezzi del petrolio e del gas sono crollati (-60% in un anno quelli del greggio e —40% quelli medi europei del gas), si sono intensificate le scoperte di giacimenti ricchi di entrambe le materie prime. Da un capo all’altro del pianeta si susseguono gli annunci di ingenti scoperte, sistematicamente accompagnate però da punti interrogativi circa l’economicità dell’estrazione in un momento di mercato come l’attuale, che secondo gli esperti durerà a lungo. Coincidenza nella coincidenza, quasi a voler sollevare governi e compagnie dall’imbarazzo in molti casi la situazione gepolitica delle aree in questione è così complessa che lo sfruttamento dovrà essere posticipato. Chissà, forse quando potrà finalmente partire il mercato si sarà risollevato. «Avrei qualche perplessità anche per la scoperta dell’Eni in Egitto, perché il regime di Al Sisi è uno dei meno democratici del mondo », commenta Moises Naim, economista del Carnegie Endowment di Washington. «Purtroppo non è una novità. La geologia non risponde all’ideologia e gran parte delle risorse energetiche del pianeta si trovano in aree dove la libertà è un concetto sconosciuto, da tanti Paesi africani fino, senza andare troppo lontani, alla Russia».
Proprio in Russia c’è uno dei giacimenti più ricchi fra quelli scoperti di recente, annunciato inizio anno dal consorzio fra l’americana Exxon e la russa Rosneft, nel Mare di Kara dell’Artico: nove miliardi di barili di petrolio e 338 miliardi di metri cubi di gas nella sola area di Universitetskaja, la prima perforata, «in grado di trasformare l’area in un centro di estrazione più importante del Golfo del Messico», hanno commentato entusiasti i dirigenti della Exxon. Senonché è intervenuta l’amministrazione Obama, dicendo che le perforazioni sono state effettuate dopo la scadenza del 10 ottobre 2014 concessa alle compagnie per ultimare i lavori in joint-venture con quelle russe. Dopodiché, per le sanzioni contro Mosca, doveva cessare qualsiasi attività comune. Ne è seguita una controversia legale fra tutte le parti interessate tuttora in corso, e il petrolio resta lì.
Anche nel Mediterraneo le tensioni non mancano. Il giacimento off-shore Leviathan, scoperto alla fine del 2014 nelle acque di fronte al Medio Oriente, fino a ieri il maggiore del “mare nostrum”, alimenta più discordie che speranze. Lo sfruttamento delle immani riserve — sotto il fondo marino giacciono 96 miliardi di metri cubi di gas e 850 milioni di barili di petrolio — è conteso da quattro Paesi: Israele, che in effetti ha sopportato i costi di esplorazione e ora ha fatto partire le licenze di estrazione, e Libano (schiacciato da un debito pubblico di 62,9 miliardi di dollari), poi Cipro e Siria, anche se il governo di Damasco è spiazzato dalla guerra civile. Sta di fatto che i lavori sono fermi.
In Tunisia invece è l’emergenza terrorismo a distogliere sforzi e risorse dalla valorizzazione del giacimento di El Faouar, nel governorato di Kebili, scoperto all’inizio di quest’estate, dotato di 430 milioni di barili nonché 400 metri cubi di gas. Ad operare è la compagnia olandese Mazarine Energy, in collaborazione con l’Etap, l’azienda petrolifera tunisina che si è imbarcata nella difficile operazione di trasformare il Paese in mini-potenza petrolifera e ha finora 37 licenze registrate di cui 15 per l’estrazione di gas.
Sono pochi i Paesi petroliferi non interessati da guerre, rivoluzioni o emergenze simili: dalla Norvegia al Canada (in possesso delle terze riserve mondiali dopo Arabia Saudita e Iran che però sono incastonate sotto i ghiacci artici e costosissime da estrarre) fino all’Australia, dove la Linc Energy, che detiene i diritti di esplorazione nel bacino di Arckaringa, nel sud del Paese, ha appena annunciato un giacimento da 103 milioni di barili di greggio.
In tutti i casi, l’economicità delle scoperte è compromessa dall’andamento del mercato. «I ritrovamenti sono frutto degli imponenti investimenti di ricerca avviati quando le quotazioni di petrolio e gas erano ben altre», spiega Leonardo Maugeri, docente di economia e geopolitica dell’energia ad Harvard. «Sono investimenti che hanno durata pluriennale, ma proprio le troppe esplorazioni hanno causato l’eccesso di offerta che si è aggiunto alla scarsa domanda europea». Per il gas in particolare, «ha pesato lo scorso inverno molto caldo nonché il balzo delle energie rinnovabili per produrre elettricità in Europa». C’è poi il fattore- shale: «Pur di mettere fuori mercato le produzioni americane, dove il costo di estrazione è maggiore, i sauditi e altri membri Opec dove estrarre il petrolio costa due dollari al barile (dieci volte di meno), non abbasseranno le quote di produzione ».