MA A cosa, e a chi, serve ancora il sindacato? Il dubbio si giustifica leggendo le cronache degli ultimi mesi.
DELLE ultime settimane. Degli ultimi giorni. Dove i sindacati (confederali) ricorrono, con frequenza, come bersaglio polemico. Da ultimo, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi alla festa del Pd, a Milano. Dove ha sostenuto: «Il sindacato in Italia è stato mediamente un fattore di ritardo» che ha ostacolato «l’efficienza e la competitività complessiva del Paese». Motivo della critica: la vicenda dell’Electrolux, dove i dipendenti hanno lavorato a Ferragosto, accogliendo la richiesta dell’azienda, nonostante il rifiuto dei rappresentanti di categoria. Squinzi è il capo degli industriali. La sua polemica con il sindacato è nella logica del gioco (delle parti. La sua, in particolare). Ma arriva dopo altri leader, più “rappresentativi” di lui. Per primo, Matteo Renzi. Il quale, lo scorso autunno, in conflitto con la Fiom, ha dichiarato che «il posto fisso non esiste più». E, implicitamente, hanno poco senso anche le organizzazioni sindacali. Ma le occasioni di polemica hanno, spesso, origine tutta interna al sindacato. Come dimenticare le perplessità (per non dir di peggio) sollevate dalla pensione percepita dal precedente segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni? Oltre 8 mila euro lordi al mese. Conseguenti a uno stipendio salito, negli ultimi anni (non per caso), da 118mila a 336mila euro. Ma anche le retribuzioni di altri dirigenti nazionali della Cisl sembrano (un poco…) “esagerate”. Il segretario nazionale dei pensionati, per esempio, incassa più di 200mila euro lordi l’anno. Tutto regolare, sicuramente. Ma parecchio, se pensiamo a questi tempi “magri” per i lavoratori. E i pensionati. Unico a pagare, in questa vicenda penosa: Fausto Scandola, il sindacalista veronese “colpevole” di aver denunciato i (mis)fatti. Espulso per aver leso – lui, non i dirigenti ultra pagati la reputazione della Cisl. Così si spiega la reazione di Gigi Manza, vicentino, dirigente della Cisl Scuola, oggi in pensione. Il quale, dopo oltre 50 anni di militanza, comunica, pubblicamente: «Ho deciso con amarezza di ritirare la mia adesione alla Cisl, sperando di ritornarvi quando rinascerà il sindacato dei lavoratori che ho conosciuto, perché ce n’è bisogno». Non credo, peraltro, che si tratti di un caso isolato.
Il clima nella Cgil appare meno teso. Ma le tensioni non mancano. La segretaria nazionale, Susanna Camusso, di recente, ha preso apertamente le distanze dalla Coalizione Sociale promossa da Landini, ove divenisse un nuovo soggetto politico. Anche se, almeno per ora, Maurizio Landini appare piuttosto un soggetto “mediatico”. Di successo.
Tuttavia, la questione del sindacato va oltre le polemiche e le divisioni che scuotono il gruppo dirigente e i suoi rapporti con gli iscritti. Riflette e riproduce, anzitutto, il declino di credibilità e fiducia che coinvolge tutte le sigle maggiori. Dal 2009 al 2015, infatti, la quota di popolazione che esprime (molta o moltissima) fiducia nella Cgil è scesa di circa 13 punti. (Da qui in poi: dati di sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%. Mentre la Cisl è passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre come il clima d’opinione peggiori proprio nella base naturale del sindacato. Gli operai. Fra i quali il grado di fiducia verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7%.
D’altra parte è da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell’impiego privato. Per contro, “rappresenta”, sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti. Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D’altronde, le adesioni sindacali nell’impiego privato non sono facilmente verificabili. Tuttavia, ciò non dipende solo dall’in-capacità del sindacato e del suo gruppo dirigente. Rispecchia, invece, il cambiamento della società. Sempre più vecchia. Dove i posti di lavoro sono sempre meno e sempre più frammentati. Circa il 60% della popolazione definisce il proprio lavoro: precario, temporaneo, flessibile. Insomma, non c’è più “un” tipo di lavoro a cui fare riferimento. Semmai, lavori e lavoratori “atipici”. E “atopici”. Senza un “posto” fisso. Presso i quali il sindacato “attecchisce” a fatica. Per difficoltà ambientali. Ma anche culturali. Proprie. Perché sembra aver perduto il ruolo sociale che, ancora pochi anni fa, occupava. Nel 2004, il 30% della popolazione lo indicava come il primo elemento di difesa dei lavoratori. Oggi appena più della metà: il 16%. Mentre, parallelamente, è cresciuto, anche su questo piano, il ruolo della famiglia: dal 10% al 36%.
Il fatto è che tra i cittadini e i lavoratori si è fatta largo la convinzione che il sindacato serva soprattutto a chi ci opera. Ai sindacalisti. In primo luogo: ai gruppi dirigenti.
Tuttavia, non credo vi sia di che rallegrarsi.
Perché il sindacato è “servito” a tutelare gli ultimi e i penultimi. Quelli che da soli non ce la possono fare. E, per difendersi, hanno bisogno di unirsi agli altri, che condividono la loro condizione. Ormai non è più così. Il sindacato rappresenta i garantiti. Mentre la questione dei “diritti”, posta da un grande leader sindacale come Bruno Trentin, – ha osservato Bruno Manghi – è «brandita per la difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui».
Ma a quel punto “i diritti” perdono valore. E ciò costituisce un problema. Per i lavoratori, per gli “esclusi”, ma anche per il sindacato.
Tuttavia, non hanno di che rallegrarsi nemmeno Squinzi e Confindustria. Il “sindacato degli imprenditori” ha perduto a sua volta credito. Dal 32,9% nel 2009 al 25,2% registrato alcuni mesi fa. (E quando si utilizza esplicitamente la denominazione “Confindustria” i valori scendono ulteriormente.) Le polemiche e le tensioni, comunque, si sono allargate anche all’interno. Molte imprese – soprattutto le più grandi – si “tutelano” e si rappresentano sempre più da sole. A partire dalla Fiat di Sergio Marchionne. «Il tempo è scaduto anche per Confindustria», ha affermato Alessandro Barilla due anni fa.
Neppure questa, però, è una buona notizia. Per nessuno.
Perché, nell’epoca dei partiti personali e personalizzati, al tempo dei partiti senza società, dove avanzano leader “soli” e da “soli”: la burocratizzazione del sindacato e delle organizzazioni imprenditoriali, lascia i cittadini ancora più “soli”. Più lontani dalla politica e dalle istituzioni.
Così, senza mediazione e mediatori, la democrazia rappresentativa diventa sempre più incolore.
Una parola in-significante.