I click letali di Amazon
Un reportage sul «New York Times» mette in evidenza una cultura aziendale basata sulla fedeltà assoluta, la delazione verso i lavoratori «riottosi» e i corsi di rieducazione per i quadri sfaticati. Elementi noti, ma che erano rimasti confinati nelle denunce di piccoli gruppi di attivisti. Ma la fortuna del colosso delle vendite on-line è costruita proprio sulla ossessione per la segretezza di quanto avviene nei suo stabilimenti e nella gestione ferrea della disciplina
Il mese scorso, a vent’anni dalla sua fondazione, Amazon è stata valutata 250 miliardi di dollari, superando così il mastodontico Walmart per affermarsi come prima azienda di distribuzione in America. Il titolo in borsa è a livelli record e stando alla classifica di Forbes, Jeff Bezos ideatore e amministratore del colosso digitale di Seattle è oggi il quinto uomo più ricco sul pianeta..
Ma il successo del mega bazaar digitale di Bezos ha un lato oscuro documentato da ultimo in Inside Amazon, l’inchiesta del New York Times pubblicata la scorsa settimana che dipinge l’azienda come un luogo di superlavoro dove operai e impiegati sono ossessivamente controllati e spinti a livelli di produttività sempre più esasperati pena il licenziamento. Dall’indagine del Times e da numerose precedenti inchieste, emerge l’immagine di una cultura aziendale i cui articoli di fede sono efficenza e produttività a scapito di ogni altra considerazione, A tratti l’articolo,che ha raccolto testimonianze di un centinaio di ex impiegati «pentiti», lavoratori epurati e «apostati», assomiglia più ad un exposé su una setta religiosa che il ritratto di una azienda. La combinazione della segretezza ossessiva caratteristica di molte aziende della new economy e l’insistenza sulla disciplina e assoluta «lealtà» dei suoi 120mila impiegati, restituiscono l’immagine di una cultura aziendale basata sul culto «ortodosso» del lavoro.
Le testimonianze dei dipendenti raccontano della «riprogrammazione» dei nuovi quadri a cui è chiesto di «dimenticare le cattive abitudini» apprese in precedent posti di lavoro e seguire il decalogo aziendale di Amazon. I precetti contentuti nei «principi di leadership» formulati da Bezos in realtà sono 14 in cui si dichiara la soddisfazione del cliente «ossessione» ufficiale dell’azienda e si richiede agli impiegati di «dare il massimo», «mostrare spina dorsale», «essere frugali», avere «alti standard» e «sviluppare il meglio» nei colleghi. Questo ultimo mandato comprende apparentemente l’invito a denunciare difetti e mancanze dei colleghi ai superiori.
Alla delazione come pratica aziendale si aggiungono le annuali «epurazioni» di personale inefficiente, email spedite dopo mezzanotte seguite qualche minuto dopo, in caso di mancata risposta, da richieste di giustificazione e periodiche autocritiche cui sono tenuti I quadri dirigenti. Una cultura alla radice di traumi emotivi descritti da molti intervistati che raccontano di impiegati e lavoratori che scoppiano frequentemente in lacrime per la pressione imposta. Nei mastodontici magazzini, in cui viene smistata la mercanzia venduta da Amazon — i «centri di esaudimento» nel newspeak vagamente orwelliano della azienda – invece il vangelo è rapidità ed efficenza. I lavoratori vengono controllati e monitorati da elaborati sistemi di sorveglianza e telemetrica in grado di raccogliere dati su ogni individuale movimento e spsotamento utlizzato dai lavoratori per svolgere le loro mansioni di selezione, trasporto e impacchettamento della mercanzia. L’obbiettivo è la costante «ottimizzazione del servizio» cioè la diminuzione dei tempi di esecuzione e l’innalzamento degli «obiettivi» determinati da capireparto.
Marc Onetto, vicepresidente Amazon, ha illustratao in passato come l’azienda si sia avvalsa di esperti di efficenza giapponesi dalla Toyota per ottimizzare le linee di produzione, dotando i propri lavoratori di trasmettitori di dati satellitari per controllarne i movimenti.
Gli effetti di questo efficentismo sono stati documentati fra gli altri dal Morning Call, piccolo giornale cittadino di Allentown, Pennsylvania, sede di un grade centro di distribuzione Amazon che nell’estate infuocata del 2011 aveva stazionate ai cancelli ambulanze per trasportare in ospedale lavoratori colti da malore. L’azienda aveva rifiutato di allentare i ritmi di produzione o aprire i portoni dello stabilimento per non compromettere i dispositivi antifurto.
È una combinazione di taylorismo e data mining che rivela come la «macchina per costruire il futuro» – altro aforisma di Bezos – assomiglia insomma a pratiche di protocapitalismo come appunto i «principi scientifici» di efficenza produttiva formulati da Frederick Winslow Taylor o Henry Ford all’inizio del secolo scorso. Pratiche che abbinano efficentismo e meritocrazia – il culto dell’otimizzazione — degli oligipoli di Silicon Valley a tecniche di data mining che ne sono il fondativo business model.
Si riscontra insomma nel modello Amazon il tentativo di ridefinire i parametri di lavoro industriale secondo i precetti di una presunta utopia digitale i cui effetti si rilevano nei dati sulla produttività in Usa, aumentata del 80% dal 1979 a fronte di un aumento dei salari di appena il 5%. Il fatto che nell’ambito della «reindustrializzazione» digitale queste tendenze vengano ridefinite nei termini di un messianesimo tecnologico mascherano appena la realtà di un economia post-crisi in cui, al collasso delle retribuzioni e delle tutele dei lavoratori corrispondono (non a caso) utili record delle corporation.
Quando Bezos costituì la sua libreria telematica aveva l’ambizione dichiarata, come amava ripetere, di farne un giorno un aggregatore planetario di libri non visto dai tempi della biblioteca di Alessandria. Ma la sua vera mira era in realtà molto più ambiziosa: l’impero di Bezos è ormai un catalogo universale delle cose, un cornucopia planetaria di beni di consumo. Nello stesso modo in cui Amazon inizialmente ha rottamato librai e distributori sovvertendo il sistema produttivo e commerciale dell’editoria oggi l’azienda mira ad applicare un processo simile al lavoro. Un processo già sperimentato dal colosso «precursore», Walmart, fondato su anch’esso su salari da soglia di povertà e iperlavoro.
In questa nuova «Amazzonia» del self-service perpetuo c’è tanta libertà di consumo ma non ci sono ad esempio i sindacati – come Walmart, Amazon ha sempre respinto la loro «intermediazione» nei propri magazzini, perchè «contrari agli interessi dei consumatori». La «libertà di consumo» di Amazon assomiglia alla libertà di espressione di Facebook (dove i contenuti sono sottoprodotti gratuiti) e la libertà di conoscenza di Google (un altro monolito digitale che qualche anno fa ha tentato di digitalizzare ogni libro esistente sula terra). I doni del radioso futuro di Silicon Valley in cui il prezzo siamo noi.
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