Decapitato il “paladino”di Palmira Ecco l’ultimo orrore del Califfato

Decapitato il “paladino”di Palmira Ecco l’ultimo orrore del Califfato

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VOLEVANO estorcergli il segreto del “tesoro” di Palmira, il luogo dove Khaled Asaad, l’archeologo siriano per 40 anni a capo dell’antico sito romano, aveva fatto nascondere decine di reperti preziosi, messi in salvo prima che i macellai iconoclasti dello Stato Islamico invadessero anche la città della mitica regina Zenobia. Dopo un mese di prigionia e orrende torture che non hanno certo piegato l’anziano studioso — aveva 81 anni — Asaad è stato barbaramente decapitato davanti a decine di persone, proprio fuori da quel museo cui aveva dedicato l’intera vita. Poco dopo sui siti jihadisti è apparsa l’immagine del suo corpo appeso a un palo della luce — la testa con ancora gli occhiali sul naso depositata ai suoi piedi — insieme a un cartello con i deliranti capi d’accusa: “rappresentante della Siria in conferenze blasfeme”; “direttore del museo degli idoli”; “amico degli sciiti iraniani”; “collaborazionista del regime di Damasco”.
Sì, perché nell’ottusa interpretazione del Corano fatta dagli uomini dell’Is, occuparsi di capolavori antichi equivale a un gesto di apostasia. Ma molto più probabilmente il brutale assassinio è stata la conseguenza dell’ennesimo rifiuto da parte dell’archeologo di svelare il nascondiglio dei capolavori salvati. Piccole opere che i jihadisti cercano più per smerciarle nel mercato nero dell’arte con cui da tempo rimpinguano le loro casse, che per distruggerle come invece è avvenuto nei mesi scorsi con i capolavori di grandi dimensioni dei siti archeologici di Ninive e a Mosul. Secondo alcune testimonianze, infatti, i jihadisti cercavano manufatti d’oro: sul genere di quel tesoro della Bactriana che i custodi del museo di Kabul nascosero proprio sotto il naso dei Taliban, che infatti non lo trovarono mai.
D’altronde Palmira, dove era nato, per Khaled Asaad era più che una ragione di vita. Della città romana, patrimonio dell’Umanità dal 1980, conosceva ogni segreto: ne era stato direttore per 40 anni, aveva creato il piccolo museo, organizzato e valorizzato gli scavi. E ai suoi capolavori aveva dedicato oltre venti libri. Anche per questo si era rifiutato di seguire i consigli di colleghi e amici che lo invitavano a fuggire e aveva deciso di restare. E infatti Maamoun Abdulkarim, il direttore delle Antichità e dei musei siriani che per primo ha dato la notizia del suo assassinio lo ha ricordato come un «pioniere»: che addirittura tra il 1962 e il 1966 aveva partecipato alla fondamentale campagna di scavi che permise il recupero di una parte della famosissima via colonnata romana, quella immortalata in tutte le cartoline di Palmira. «Lo hanno ucciso perché non ha voluto tradire il suo profondo impegno con l’antica città» ha affermato il direttore generale dell’Unesco Irina Bokova. «Il suo lavoro sopravviverà all’orrore degli estremisti. Hanno ucciso un grande uomo ma non silenzieranno mai la Storia». Anche il ministro dei Beni Culturali italiani Dario Franceschini è intervenuto sulla vicenda: «La violenza barbarica nei confronti di un uomo che ha dedicato la vita al patrimonio culturale del suo Paese è la negazione stessa della civiltà: non può rimanere senza risposta». Ma intanto i criminali sono ancora a Palmira. «Un cattivo presagio per ogni colonna e per ogni frammento archeologico lì preservato» è il monito del funzionario Abdulkarim. Mentre dagli Stati Uniti dove si è rifugiato, Amr al Azm, ex capo del Dipartimento generale dei musei siriani, ricorda che ci sono anche altri archeologi nelle mani dei jihadisti. Prigionieri proprio perché «ritenuti in possesso di informazioni su antichità nascoste di cui i miliziani vogliono impadronirsi ». La caccia al tesoro dell’orrore, purtroppo, non finisce qui.


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