MILANO . Giganti sul web, fantasmi per l’erario. Almeno per quello tricolore. L’Italia si è confermata nel 2014 un idilliaco paradiso fiscale per i big hi-tech, abituati da tempo a far grandi affari nel Belpaese ma a pagare le tasse, quando le pagano, altrove. Lo scorso anno non ha fatto eccezione: Google, Apple, Facebook, Twitter, Amazon ed Ebay hanno macinato vendite e quote di mercato nella penisola. Al momento di fare i conti con le imposte, però, all’Agenzia delle Entrate sono arrivati pochi spiccioli: meno di nove milioni sommando la cifra versata da tutti e sei messi assieme. Un quinto di quanto sborsa da sola la farmaceutica Recordati, l’1,3% della bolletta di Telecom Italia. Facebook ha versato nelle casse di Roma 305mila euro. Quasi il doppio dell’anno prima, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma- a essere pignoli – una cifra inferiore a quella pagata da Bonifiche Ferraresi, gloriosa società di Piazza Affari che sbarca il lunario coltivando grano duro, barbabietole e pere. Google fattura nel nostro Paese circa due miliardi. Alle finanze però risultano altri dati: 54 milioni di vendite che rendono al Tesoro 2,1 milioni di tasse. Stesso discorso per Apple: IPhone e Mac le hanno regalato nel 2014 entrate superiori al miliardo. Peccato che agli annali dell’erario tricolore il bilancio della società di Cupertino si sia chiuso con la miseria di 26 milioni di ricavi e 4,2 milioni di imposte.Il fisco mondiale è diventato un gioco delle tre carte in cui i soldi incassati rimbalzano da una parte all’altra del pianeta («in modo legale», assicura chi li sposta) alla ricerca della nazione che offre le condizioni più favorevoli. I conti italiani dei sei big del web parlano da soli: i ricavi che risultano nei bilanci 2014 non sono le entrate garantite dalla vendita nel nostro Paese di smartphone Apple, di prodotti Amazon o degli spazi pubblicitari di Google, Twitter e Facebook, bensì le entrate per i “servizi” prestati ad altre aziende del gruppo in Lussemburgo o Irlanda. L’Iphone venduto a Roma genera un incasso alla Apple Sales International di Holyhill (Irlanda) che a sua volta versa una commissione simbolica alla controllata tricolore. Un triangolo interessato visto che la tassazione a Dublino è del 12,5% e grazie ad altri acrobazie finanziarie con Olanda e Bermuda, può essere ridotta a valori vicini al prefisso telefonico.
Tutto regolare? «Assolutamente sì», dicono gli interessati. Qualche dubbio è venuto invece non solo alla Ue, che ha aperto un’inchiesta su questo rimpiattino erariale, ma anche ad alcune Procure italiane e all’Agenzia delle entrate. La Guardia di Finanza e i pm di Milano hanno accusato Google di aver eluso un imponibile di 800 milioni in cinque anni. Una cifra identica è stata contestata a Apple. Amazon – che triangola sulla filiale lussemburghese – ha aperto un tavolo con Roma per definire assieme i criteri con cui contabilizzare i suoi affari nello stivale. E le nuove regole sul transfer pricing – la triangolazione delle entrate – dovrebbero contribuire a ridurre l’elusione. Lo sanno anche i diretti interessati. «Le imposte iscritte al nostro bilancio sono stanziate in base alle normative vigenti – scrive Google nella sua relazione sui conti 2014 – ma le verifiche in corso potrebbero avere effetti rilevanti sull’imponibile della società ». E pure, con buona pace di Mountain View, sulle casse un po’ disastrate dell’Italia.