Inquinamento, debiti e morti sul lavoro l’acciaieria diventata la Grecia d’Italia

Inquinamento, debiti e morti sul lavoro l’acciaieria diventata la Grecia d’Italia

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PER l’Ilva, verrebbe da dire che è successo tutto ieri. L’inchiesta intitolata “Ambiente svenduto” è approdata al rinvio a giudizio di 44 dei 47 imputati. Il governo ha votato, trasferendolo in una nuova legge, il dissequestro dell’altoforno numero 2, dal quale dipende la continuazione della produzione. Gli amministratori straordinari sono andati a riferire in parlamento, e hanno garantito che l’impegno al risanamento è all’80 per cento realizzato rispetto alla scadenza del 31 luglio. La Confindustria si è riunita e ha annunciato di voler tenere il prossimo Consiglio Generale a Taranto. Tutto ieri. Sui giornali si leggono titoli come: “Taranto: scontro senza precedenti fra governo e Procura”. Macché, è una rincorsa che dura tal quale, appena mutati gli attori, da anni: un disastro, un provvedimento della magistratura, una legge del governo che lo cancella, un altro disastro, e così via. Ieri il titolo maggiore era su Vendola rinviato a giudizio. Vendola paga la differenza fra un’epoca in cui ci si sorveglia poco, parlando e ascoltando, specialmente al telefono (non è mai finita, quell’epoca) e il tempo in cui l’abitudine si rompe, e ci si deve vergognare di battutacce e compromissioni pressoché inavvertite fino a ieri. Se ci fosse un reato, vedranno i giudici: che ci fosse una debolezza umana, lo sa anche lui, e l’ha detto. Ci sono tanti processi in questo quasi maxiprocesso. Per l’udienza, ieri hanno dovuto trasferirsi nella palestra dei Vigili del Fuoco. C’è il processo ai padroni Riva e ai loro amministratori e dirigenti. Ci sono anche “i fiduciari”, ve li ricordate? Quei capi fatti venire dal nord, come in terra di colonia, a costituire la vera gerarchia clandestina, da cui il governo formale della fabbrica dipendeva come in un teatrino di marionette. La verità è che l’Ilva è una Grecia in Italia — o, se volete, che lo è la città di Taranto. E si decide se debbano restarci, in Italia, l’una o l’altra, o, che è la cosa più improbabile, ambedue. L’8 giugno, all’altoforno 2, Alessandro Morricella, 35 anni, due figli piccoli, viene investito da un getto incandescente di ghisa, muore dopo 4 giorni di agonia. È un infortunio, pur nella casistica tragica dello stabilimento, senza precedenti. La custode giudiziaria, Barbara Valenzano, argomenta in una perizia di 70 pagine che l’impianto è privo dei requisiti di sicurezza. Non si tratta infatti, in questa tappa, della questione ambientale, bensì della sicurezza sul lavoro. La Procura decide come le impone l’ufficio e sequestra l’impianto. (La famosa, e per i peggiori famigerata, Patrizia Todisco, è da tempo fuori dagli sviluppi giudiziari). Quando la pratica arriva al gip, l’Ilva sostiene di avere un piano per la messa in sicurezza dell’impianto. Ergo, non può che dedurre il giudice, l’impianto non è in si- curezza — e conferma. Poiché su 5 solo 2 altoforni sono in funzione, e l’altro, il 4, non basta al riciclaggio dell’energia, la produzione è praticamente ferma. Riparte la campagna sui magistrati che non sanno quello che fanno. Il governo interviene d’urgenza, ma con un pasticcio: evoca l’Autorizzazione Integrata Ambientale. Ma qui è in gioco la sicurezza sul lavoro. E il decreto non dice a chi spettino i controlli, una volta riautorizzata la produzione: all’Arpa, all’Ispra, ai pompieri? Il giudice solleva 6 eccezioni al decreto, e intanto lo sospende, rinviando alla Corte Costituzionale. Il decreto diventa legge, e l’Ilva ripresenterà l’istanza: ma non essendo cambiato niente, coma farà a cambiare il giudice? La Procura tarantina ha magistrati tutt’altro che ignari delle conseguenze dei loro atti. Non c’è da aspettarsi che si sostituiscano a sindacalisti e prefetti, ma sono capaci di valutare misure che appaiano adeguate al rischio. Intanto, l’azienda sostiene che la morte di Morricella è frutto di “errore umano”: ieri uno dei tre amministratori, Enrico Laghi, l’ha ripetuto alla Camera. La voce che altri sussurrano è che Morricella sia stato vittima di un proprio gesto incauto, una fiammata che doveva festeggiare il matrimonio del capo. Una lugubre versione siderurgica dell’inchino di Schettino. È passato un mese e mezzo, e se la versione avesse uno straccio di prova, occorreva esibirla. E se non l’ha, è un’infamia, dalla quale gli amministratori dell’Ilva sono i primi a doversi guardare. Intanto, i paradossi si moltiplicano. Mandati a controllare l’altoforno sequestrato, i carabinieri del Ros hanno denunciato 19 operai del primo turno trovati al lavoro.
Poi c’è l’arretrato. Nel luglio del 2012, le piazze erano ribollenti: operai in difesa del posto, ambientalisti in difesa della salute, cittadini in difesa di tutto. In questo luglio non si vede niente del genere. Il monsignore segretario dell’arcivescovo emerito è stato condannato ieri col rito abbreviato a 10 mesi. I conti correvano in curia. La seconda “fabbrica” tarantina è un Call Center — 3000 fra precari e tempo determinato, parecchie mogli di operai dell’Ilva; e contratti di solidarietà a 2 o 3 ore. Il resto chiude o se ne va, come l’Evergreen al porto, che doveva diventare il porto dell’oriente e diventa una Lampedusa 2. Per pareggiare i conti — danni umani a parte — l’Ilva, che fece la pazzia di raddoppiare gli impianti, è fatta per produrre fra gli 8 e i 10 milioni di tonnellate all’anno. Ne producemeno di 6. Perde, secondo “Peacelink”, 1 miliardo e 200 milioni all’anno, più i debiti con le banche e i costi del risanamento ambientale. Dentro, la struttura tecnica è tracollata: migliorie se ne fanno, e capi già prepotenti si sono fatti prudenti. «I decreti del governo dimostrano che non la chiuderanno mai». «I miliardi che servono dimostrano che non può durare». È una nostra Grecia, appunto. Ce ne sono tante.


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