La speranza rubata di un paese che sfida il Califfo con la democrazia

La speranza rubata di un paese che sfida il Califfo con la democrazia

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Tunisia. Per i tagliatori di teste il comportamento di questo piccolo Stato è un affronto intollerabile Qui è cominciata la primavera araba e qui è stato formato un governo in cui convivono laici e islamisti nel quadro di una Costituzione che dà uguali diritti a uomini e donne e garantisce le libertà individuali
PAUL Klee “scoprì” il colore in Tunisia. Come altri pittori aveva la sensazione che là, in quel privilegiato panorama, avvolgesse uomini e natura con un misto di intensità e dolcezza impareggiabili. Quando il cielo si annuvolava, era come se si spegnesse la luce. Il buio calava sul mare sul deserto, sulle colline verdi e il paese spariva. Senza la sua luminosità mediterranea particolare, la Tunisia perde in effetti quel fascino che ha attirato tanti artisti e sprofonda nella normalità. In queste ore non è tuttavia il sole, la sua luce a mancare sul litorale di fronte alle isole italiane, sull’altra sponda del mare. A svanire è la speranza di veder sopravvivere la transizione democratica: un modello unico nel mondo arabo musulmano. Un dono conquistato, prezioso come la luce di Klee.
Gli umori sono bui. Non il cielo. L’ atmosfera è cupa. I miei amici di Tunisi, ieri mattina, poche ore dopo la strage hanno deciso di raggiungere una spiaggia del golfo di Hammamet, non lontano da quella insanguinata dal giovane assassino ispirato dal Califfato. Se non ci fossero andati, se non si fossero stesi sulla sabbia sfidando i comprensibili timori, si sarebbero considerati dei disertori. Ma le loro voci erano ancora tremanti.
Il Califfato ha allungato il suo braccio per spegnere la nuova democrazia tunisina. Per i tagliatori di teste, cultori degli orrori di un passato remoto, arroccatisi nella valle del Tigri e dell’Eufrate, è una sfida insopportabile quella lanciata dai tunisini. Da cancellare al più presto. Da soffocare. È una bestemmia. Il Califfato ha designato tanti nemici nel mondo musulmano e nell’Occidente infedele. Il comportamento della piccola, indifesa Tunisia, priva di un grande esercito e senza petrodollari, quindi con pochi amici, è un affronto intollerabile. Là è cominciata la primavera araba e sempre là è stato formato un governo in cui convivono i liberali del partito Nidaa Tounes e gli islamisti di Ennahda, nel quadro di una Costituzione che dà uguali diritti a uomini e donne, e garantisce le libertà individuali.
È un plateale insulto alla Sharia, ai principi coranici e ai dogmi annessi cosi come li intendono gli integralisti più rigorosi. Nello spazio di poco più di tre mesi ci sono stati due attacchi alla Tunisia indisciplinata. Prima i ventidue morti del 18 marzo, al Museo del Bardo, alle porte di Tunisi; e due giorni fa, il 26 giugno, altri trentanove morti a El Kantaoui, sulla costa orientale, a quindici chilometri da Susa (o Sousse), in un albergo per turisti, l’ Imperial Marhaba.
I sopravvissuti alla strage dicono che Seifeddine Rezgui (chiamato dal califfato Abu Yahya al-Kairouani), studente di Kairouan, la città dove è conservato un pelo della barba del Profeta, voleva ammazzare gli stranieri. Ai tunisini diceva di scansarsi. Non ce l’aveva con loro ma con gli infedeli, con i peccatori in vacanza. In realtà col kalashnikov falciava chi veniva a tiro. Ma soprattutto infliggeva una profonda ferita alla Tunisia democratica, la cui risorsa economica è soprattutto il turismo. Che occupa mezzo milione di persone, il quindici per cento della popolazione attiva, e contribuisce al Pil per circa l’otto per cento. La precipitosa fuga dei turisti inglesi, belgi, tedeschi con i voli speciali mandati in gran fretta dai loro rispettivi governi, è uno spettacolo che in queste ore annuncia una stagione estiva con le spiagge semivuote. E quindi una devastante crisi economica destinata a minacciare, a rendere incerta quella transizione democratica tanto fastidiosa per il Califfato. L’aumento brutale della disoccupazione e l’azione più incalzante di gendarmi e polizia non contribuiranno ad aumentare la popolarità del governo. Cosi come la prevista chiusura di ottanta moschee in cui si predica la violenza, annunciata da Beji Caid Essebsi, il presidente della Repubblica, e da Habib Essid, il primo ministro, irriterà gli islamisti incerti nelle loro convinzioni democratiche.
Non è stato facile, un anno fa, convincere il partito islamico, Ennahda, ad accettare il principio dell’alternanza, vale a dire rispettare il risultato elettorale. Era insediato al potere e non voleva cederlo. L’aveva conquistato con il libero voto grazie alla “primavera araba” che aveva cacciato Ben Ali, il raìs fuggito nell’Arabia saudita, ma era riluttante ad affidarsi ancora al verdetto delle urne che si annunciava sfavorevole. Rashid Ghannushi, il leader islamista, ammorbidito dalla sorte toccata al Cairo ai Fratelli musulmani suoi alleati, imprigionati e massacrati dai militari del maresciallo Al Sisi, ha finito col convertirsi seriamente alla democrazia. E nelle ultime ore ha ribadito le convinzioni democratiche e il sostegno al governo, a cui partecipa del resto il suo partito.
Rashid Ghannushi è un devoto sunnita e al tempo stesso un democratico: una specie di musulmano detestato dal Califfato, e non sempre apprezzato dagli occidentali piuttosto scettici sull’esistenza di un Islam moderato. L’atteggiamento dei jihadisti è chiaro; quello diffuso tra gli occidentali lo è meno. Perché ignora la natura del conflitto che con molte varianti investe il Medio Oriente e non risparmia il Maghreb. Il conflitto mette a confronto sunniti integralisti e sunniti moderati. È in sostanza una guerra tra di loro, sia pure affiancata da quella tra sciiti e sunniti. Charles de Gaulle, allora giovane capitano in partenza per la Siria, scriveva nelle sue memorie che andava nell’Oriente complicato con idee semplici. È un esempio da seguire. A noi la semplicità invita a vedere il musulmano e democratico Ghannushi come il vero obiettivo degli attacchi del Califfato. La guerra è tra di loro. Noi subiamo le ricadute, ma dobbiamo sapere chi sono i nostri amici. E dobbiamo aiutarli.


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