«I creditori non possono più continuare a stare al gioco del governo greco senza rovinare completamente la propria credibilità e quella delle Istituzioni. La democrazia in fin dei conti non c’è soltanto in Grecia».
Così si esprimeva sulla Frankfurter Allgemeine (Faz) di ieri una delle firme di punta, Klaus-Dieter Frankenberger: un’efficace sintesi della «narrazione» che l’establishment tedesco fa della crisi greca. In altri termini: i governi europei, quello di Angela Merkel in testa, hanno ricevuto un mandato dai propri elettori in base al quale devono dire no alle richieste di Atene. Ma è davvero così? Limitiamoci al caso tedesco, quello più importante.
Ebbene: è probabilmente così, se si parla degli elettori del partito della cancelliera, l’Unione democristiana (Cdu). Ma è assai più dubbio, se ci si riferisce a chi ha votato l’altra forza della grosse Koalition, la socialdemocratica Spd. Che nelle campagne elettorali per le politiche del 2013 e per le europee del 2014 ha sostenuto che l’Europa dovesse «cambiare verso», ponendo fine all’austerità e dando avvio a politiche espansive sia dentro i confini della Repubblica federale, sia negli stati della «periferia meridionale».
Non corrisponde al vero, quindi, che tutto l’esecutivo tedesco sia vincolato a una sorta di mandato democratico che impone di perseverare nella strada che porta al suicidio dell’Europa: almeno la Spd del vicecancelliere Sigmar Gabriel ne sarebbe sciolta.
Purtroppo, però, in questi giorni sembra che a Berlino sia in corso una gara fra i partner della «grande coalizione» a chi appare «il più anti-greco del reame». E quindi, tradendo la parola data ai propri elettori, il leader socialdemocratico sta bacchettando Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis più di quanto abbia mai fatto la cancelliera stessa. Utilizzando anche toni che puzzano di nazionalismo: «Non saranno i lavoratori tedeschi a pagare per gli errori di un governo come quello greco, formato in parte da comunisti», ha scritto in un articolo sulla Bild (e ripetuto in televisione). Parole sulle quali ha ironizzato proprio l’autorevole testata liberal-conservatrice Faz: «Gabriel ha cambiato posizione, e quella attuale non ha nulla a che vedere con idee socialdemocratiche». Se lo dicono loro.
In questo sconfortante quadro assume grande importanza la voce in senso contrario di Reiner Hoffmann, segretario generale della potente confederazione sindacale unitaria Dgb (oltre 6 milioni di iscritti), tessera socialdemoratica in tasca: «Le proposte di Atene sono ragionevoli, e un’intesa non dovrebbe essere difficile», è il succo di un articolo che ha pubblicato sul quotidiano Tagesspiegel.
Un intervento che Hoffmann ha firmato insieme al capo-economista della prestigiosa fondazione di studi Hans Böckler e, quel che più conta, alla politologa Gesine Schwan, punto di riferimento intellettuale della Spd al punto da essere stata per due volte (nel 2004 e 2009) candidata ufficiale del partito alla presidenza della Repubblica. Ma Gabriel pensa invece a mostrare i muscoli, scontentando molto anche l’ala sinistra della propria organizzazione, che è fra le promotrici della manifestazione di solidarietà alla Grecia (e i migranti) in programma sabato a Berlino – e, in contemporanea, in molte altre città europee. Critiche durissime al vicecancelliere vengono dalla Linke, che da ieri ha due nuovi capigruppo parlamentari in pectore, il «moderato» Dietmar Bartsch e la «radicale» Sahra Wagenknecht: il voto per sostituire Gregor Gysi avverrà a ottobre, ma è scontato che i nomi proposti saranno approvati.