Il mio assegno e lo stato sociale

Il mio assegno e lo stato sociale

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AMMETTO un conflitto di interessi: sono una pensionata e appartengo a quella generazione che è andata in pensione con il vecchio sistema retributivo, avendo all’epoca della riforma Dini maturato già oltre 18 anni di contributi.
SONO quindi una dei milioni di pensionati che dovrebbe gioire per la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il blocco della rivalutazione per due anni per tutti coloro che avevano una pensione superiore a tre volte il minimo. Eppure, non riesco a rallegrarmi, perché non riesco a immaginare come si potrà “restituire il maltolto” — come dicono sia i sindacati sia Salvini con una strana identità di linguaggio — ai pensionati, a prescindere dal livello della loro pensione, senza andare a tagliare ulteriormente pezzi dello stato sociale italiano già in grave sofferenza: la sanità, la scuola, il sostegno a chi si trova in povertà. Per altro, non mi risulta che ci siano stati nella storia italiana ricorsi alla Corte costituzionale per la mancata garanzia di diritti primari: un lavoro decente, una scuola adeguata sia sul piano della sicurezza che su quello delle dotazioni materiali e professionali, un reddito minimo per chi si trova in povertà. Anche questa volta non sono stati certo i pensionati appena sopra tre volte il minimo a ricorrere alla Corte, ma le associazioni dei dirigenti, il cui livello pensionistico è certamente, come il mio, ben sopra a quel minimo, pur senza necessariamente raggiungere le cifre da capogiro di certi gran commis dello Stato.
Purtroppo né la sentenza della Corte né le argomentazioni di coloro che hanno fatto ricorso, né quelle dei sindacati e dei politici aiutano a fare chiarezza sui termini della questione, sugli effettivi diritti e su chi ha la responsabilità di far fronte ai costi. Del resto, le pensioni sono ormai da troppi anni oggetto di una continua manipolazione che produce crescente incertezza tramite l’arbitrarietà delle decisioni da un lato, la confusione concettuale dall’altro. Che senso ha parlare di “salario differito” quando, come avveniva un tempo ed è tuttora goduta da molti, essa era calcolata non sui contributi effettivamente versati né sulla media dei salari guadagnati, ma sull’ultimo o gli ultimi anni di lavoro, incentivando promozioni a ridosso del pensionamento per “regalare” appunto, una pensione più alta? Se l’integrazione al minimo, per cui si otteneva una pensione più alta di quella guadagnata con i contributi se si aveva un reddito basso, aveva una valida ragione di solidarietà, non si capisce perché la collettività dovesse, debba, integrare di fatto a spese proprie pensioni già medio-alte. Per altro, l’integrazione al minimo è l’unico aspetto del vecchio sistema pensionistico eliminata da un giorno all’altro per i neo-pensionati, senza periodo di transizione (e senza intervento della Corte costituzionale), dalla riforma Dini, mentre per il resto si avviava una transizione lunghissima, cui ha messo fine, in questo caso beneficamente, solo la riforma Fornero.
Nel bocciare la norma che bloccava la perequazione, la Corte ha argomentato che «l’interesse dei pensionati, in particolar modo i titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata». Ed ha aggiunto che la decisione del governo Monti non era sufficientemente argomentata sul piano finanziario. Non è chiaro se l’insufficienza dell’argomentazione riguardi il provvedimento in sé o la sua estensione senza distinzioni a tutti coloro che avevano una pensione superiore a tre volte il minimo. Questo, tuttavia, è il punto dirimente. Qual è la soglia al di sotto della quale si pongono i “trattamenti previdenziali modesti” — aggiungerei, in nome del principio di solidarietà e del diritto ad una vita decente, anche se questi trattamenti fossero superiori a quanto dovrebbero essere sulla base dei contributi versati? La Corte avrebbe dovuto chiedere al governo di definirli in modo non arbitrario, con precise argomentazioni, invece di aprire, come sembra, a un “liberi tutti”, anche chi invece non ha un “trattamento previdenziale modesto” ed anche se questo è superiore a quanto sarebbe se calcolato con il criterio retributivo. È la via che prese a suo tempo la Corte costituzionale tedesca quando giudicò infondata e perciò incostituzionale, per mancanza di sostegni empirici, la quota per i figli minori nel sussidio per i poveri, chiedendo, appunto, al governo di individuare criteri in base a cui determinarla, tenendo conto non solo delle necessità della sussistenza, ma anche della partecipazione alla vita dei coetanei e dello sviluppo delle capacità.
Anche in assenza di una esplicita richiesta della Corte, forse il modo di uscirne è proprio cominciare a fare chiarezza. Da un lato definire che cosa è un “trattamento previdenziale adeguato”, da utilizzare come soglia da salvaguardare. Dall’altro ricalcolare tutti i sistemi pensionistici in essere per vedere quanti, a quale livello e di quanto hanno una pensione superiore a quella calcolata con il sistema contributivo. Su questa base, si può valutare quali e quanto debbano essere salvaguardate e quali e quanto debbano “restituire il maltolto”, non solo per fare cassa, ma per una questione di equità intra e intergenerazionale. Prima, o senza, questa operazione ogni altra decisione presta il fianco al rischio di creare nuove iniquità, oltre che vistosi buchi di bilancio.


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