Il piano del Califfo: aprire nuovi fronti in gara con Al Qaeda
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WASHINGTON È una sfida nel Risiko jihadista. Isis e Al Qaeda si contendono ogni provincia — wilayah — a colpi di attacchi. Indiscriminati quelli del Califfo. Selettive — ma solo in parte — le operazioni di chi ancora crede negli ordini di Zawahiri, preoccupato per uno stragismo che uccide più musulmani che infedeli.
Dissidio operativo enfatizzato da quello ideologico. E non è un caso che proprio nello Yemen siano emersi in modo aperto i contrasti tra le due linee del terrorismo islamista.
Al Baghdadi, che deve difendere il territorio originario del Califfato, uno spazio composto da un pezzo di Siria e di Iraq, ha fretta. La sua dottrina ha sempre predicato prima il consolidamento, poi l’espansione. E così ha costruito il successo che lo ha portato fino a Mosul. Ma adesso il leader dell’Isis lancia la bomba in anticipo. Quando è nelle condizioni colpisce, altrimenti si affida alla propaganda. Rivendica tutto, dal massacro di Tunisi all’eccidio spaventoso di Sana’a. Un solo messaggio è sufficiente per marcare i confini, i resti del kamikaze convalidano il coinvolgimento. La moltiplicazione degli attentati aiuta a rendere tutto più credibile. E l’uso di alcuni canali di comunicazione — identici per assumersi la responsabilità di Tunisi e Sana’a — diventa il sigillo ufficiale. Anche se per una valutazione investigativa serve altro.
In modo astuto lo Stato Islamico inserisce nei proclami di minaccia ogni Paese dove pensa di poter trovare qualche seguace. Aveva esortato gli islamisti yemeniti a usare le autobomba e quelli lo hanno fatto. Non certo per obbedirgli: un autorevole ideologo qaedista ha rimproverato l’Isis. Però, nel contempo, i seguaci di Osama hanno accettato il duello intensificando le azioni contro la milizia sciita Houthi.
Senza dimenticare che per l’attentato di Parigi, Isis e Al Qaeda nella penisola arabica si sono «divisi» il merito benedicendo i rispettivi militanti.
Le stragi servono a spazzare via nemici, creano odio, divisioni settarie funzionali ai progetti integralisti. Pensiamo a quanto è avvenuto a Bagdad in questi anni. Bagni di sangue che i capi cercano poi di usare per raccogliere consensi e reclute tra quanti condividono il piano distruttivo.
La decapitazione dei copti a Sirte segnala che l’Isis è davvero in Libia anche se ha ancora pochi uomini. A questo serve il presunto ruolo nell’assalto al Bardo. Vago, incerto, sufficiente comunque ad alimentare il sospetto che davvero i due mujaheddin siano stati preparati in un covo libico e poi mandati in missione. E ora l’attacco multiplo alle moschee yemenite, talmente orrendo da spingere i qaedisti a prenderne le distanze.
L’aspetto sconvolgente è che la tattica del terrore cieco, nel breve termine, funziona. E induce altre fazioni ad emularla. L’esempio più devastante è Boko Haram.
Il grottesco leader della fazione nigeriana, Abubakar Shekau, non solo imita il Califfo e ne riconosce l’autorità ma ordina azioni feroci. Lo raccontano le ultime fosse comuni con dozzine di vittime. In stile Isis.
Al Baghdadi, che deve difendere il territorio originario del Califfato, uno spazio composto da un pezzo di Siria e di Iraq, ha fretta. La sua dottrina ha sempre predicato prima il consolidamento, poi l’espansione. E così ha costruito il successo che lo ha portato fino a Mosul. Ma adesso il leader dell’Isis lancia la bomba in anticipo. Quando è nelle condizioni colpisce, altrimenti si affida alla propaganda. Rivendica tutto, dal massacro di Tunisi all’eccidio spaventoso di Sana’a. Un solo messaggio è sufficiente per marcare i confini, i resti del kamikaze convalidano il coinvolgimento. La moltiplicazione degli attentati aiuta a rendere tutto più credibile. E l’uso di alcuni canali di comunicazione — identici per assumersi la responsabilità di Tunisi e Sana’a — diventa il sigillo ufficiale. Anche se per una valutazione investigativa serve altro.
In modo astuto lo Stato Islamico inserisce nei proclami di minaccia ogni Paese dove pensa di poter trovare qualche seguace. Aveva esortato gli islamisti yemeniti a usare le autobomba e quelli lo hanno fatto. Non certo per obbedirgli: un autorevole ideologo qaedista ha rimproverato l’Isis. Però, nel contempo, i seguaci di Osama hanno accettato il duello intensificando le azioni contro la milizia sciita Houthi.
Senza dimenticare che per l’attentato di Parigi, Isis e Al Qaeda nella penisola arabica si sono «divisi» il merito benedicendo i rispettivi militanti.
Le stragi servono a spazzare via nemici, creano odio, divisioni settarie funzionali ai progetti integralisti. Pensiamo a quanto è avvenuto a Bagdad in questi anni. Bagni di sangue che i capi cercano poi di usare per raccogliere consensi e reclute tra quanti condividono il piano distruttivo.
La decapitazione dei copti a Sirte segnala che l’Isis è davvero in Libia anche se ha ancora pochi uomini. A questo serve il presunto ruolo nell’assalto al Bardo. Vago, incerto, sufficiente comunque ad alimentare il sospetto che davvero i due mujaheddin siano stati preparati in un covo libico e poi mandati in missione. E ora l’attacco multiplo alle moschee yemenite, talmente orrendo da spingere i qaedisti a prenderne le distanze.
L’aspetto sconvolgente è che la tattica del terrore cieco, nel breve termine, funziona. E induce altre fazioni ad emularla. L’esempio più devastante è Boko Haram.
Il grottesco leader della fazione nigeriana, Abubakar Shekau, non solo imita il Califfo e ne riconosce l’autorità ma ordina azioni feroci. Lo raccontano le ultime fosse comuni con dozzine di vittime. In stile Isis.
Guido Olimpio
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