Quella poltrona e i suoi segreti Perché al ministero non cambiano gli attori
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Fu con voce rotta dall’emozione che Claudio Scajola comunicò la dolorosa decisione: «Per difendermi non posso continuare a fare il ministro». Era il 4 maggio 2010. Le inchieste avevano rivelato che il costruttore Diego Anemone pagava «all’insaputa» del suddetto Scajola la casa al Colosseo acquistata dal ministro. Al quale non restò che trarne le conclusioni. Lo stesso non fece Ercole Incalza, di cui un familiare aveva ricevuto analogo omaggio dal protagonista della Cricca. Una settimana dopo le dimissioni di Scajola Fiorenza Sarzanini raccontò sul Corriere che Anemone aveva contribuito con 520 milioni all’acquisto di una casa a Roma per suo genero. Che candidamente dichiarò: «Ho fatto l’affare grazie a mio suocero».
Incredibilmente nessuno chiese spiegazioni a Incalza, che rimase serenamente al suo posto. Nessuno in quel governo. E nessuno nei governi successivi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi. Perché Incalza era più potente di qualunque ministro.
Dice tutto questo episodio: il ministro si dimette, lui resta senza che qualcuno, neppure a sinistra, sollevi la questione. E non parliamo solo del problemino della casa del genero comprata con un generoso contributo di un imputato per reati di corruzione, ma dei risultati non proprio soddisfacenti della gestione delle opere pubbliche italiane in tutti questi anni. Ci provano i grillini, ma il ministro Maurizio Lupi gli fa scudo in Parlamento.
Sospettano, quelli del Movimento 5 Stelle, che sia il garante di un sistema che si trascina dalla Prima Repubblica ed è uscito indenne dalle bufere di Mani pulite. Ed è indubbio che Incalza quel sistema lo conosca a perfezione: almeno come persona informata dei fatti. La stampa (in testa Il Fatto quotidiano ) ricorda come sia incappato in quattordici inchieste, con quattordici proscioglimenti. Alcuni intorbiditi dalla provvidenziale prescrizione. Il suo nome salta fuori già nelle inchieste sui Mondiali di calcio del 1990: in quel caso lo proscioglie «perché il fatto non sussiste» il gip Augusta Iannini, ora componente dell’autorità della Privacy, incidentalmente consorte del conduttore di Porta a Porta Bruno Vespa. Per arrivare ai processi sull’alta velocità, con un non luogo a procedere: stavolta perché prescritto, insieme ad altri sei fra cui il senatore Luigi Grillo, che poi vedremo comparire nelle indagini sull’Expo di Milano.
Di Incalza, pugliese di Francavilla Fontana, non c’è ministro che non provi soggezione. Al punto che incontrandoli insieme risulta difficile all’interlocutore distinguere chi dei due comandi davvero lì dentro. Se debba tutto all’ex amministratore delegato delle Ferrovie Lorenzo Necci, è difficile dire. Certo è che il momento di svolta della sua lunga carriera è proprio l’incarico di gestire la società dell’alta velocità ferroviaria.
Prima di allora è stato dirigente della Cassa del Mezzogiorno. Dove si inizia a cementare il suo legame con il mondo politico. Socialisti, soprattutto. Nel 1985 il governo Craxi lo nomina alto dirigente generale del ministero e gli viene affidato l’incarico di fare il piano generale dei Trasporti. Una leva di potere formidabile. I ministri si avvicendano, dal socialista Claudio Signorile al democristiano Carlo Bernini, ma lui è sempre al suo posto. Finché Necci non arriva alle Ferrovie e gli mette in mano la Tav. È Incalza che nel 1991 firma le concessioni con Iri, Eni, Fiat e Montedison che prefigurano l’ultima spartizione a tavolino dei grandi appalti. Quando poi cinque anni dopo Necci viene estromesso e al suo posto arriva Giancarlo Cimoli, anche Incalza deve lasciare la Tav, ma resta come responsabile dei grandi investimenti delle Fs e uno stipendio profumatissimo. Ed è ancora Incalza che rispunta nel 2001 al ministero delle Infrastrutture al fianco di Pietro Lunardi, conosciuto quando la sua società Rocksoil progettava i tunnel per i treni veloci. Anni in cui il suo potere cresce, irrefrenabile.
Antonio Di Pietro riesce a metterlo da parte. Siccome però per garantire poltrone a tutti il governo Prodi spacchetta il ministero, ecco che Incalza si può comodamente rintanare ai Trasporti di Alessandro Bianchi in attesa che passi la buriana dipietrista. Non deve aspettare molto. Torna Berlusconi e torna pure lui per altri sette lunghi anni. Tocca ora ai magistrati aprire gli armadi.. .
Dice tutto questo episodio: il ministro si dimette, lui resta senza che qualcuno, neppure a sinistra, sollevi la questione. E non parliamo solo del problemino della casa del genero comprata con un generoso contributo di un imputato per reati di corruzione, ma dei risultati non proprio soddisfacenti della gestione delle opere pubbliche italiane in tutti questi anni. Ci provano i grillini, ma il ministro Maurizio Lupi gli fa scudo in Parlamento.
Sospettano, quelli del Movimento 5 Stelle, che sia il garante di un sistema che si trascina dalla Prima Repubblica ed è uscito indenne dalle bufere di Mani pulite. Ed è indubbio che Incalza quel sistema lo conosca a perfezione: almeno come persona informata dei fatti. La stampa (in testa Il Fatto quotidiano ) ricorda come sia incappato in quattordici inchieste, con quattordici proscioglimenti. Alcuni intorbiditi dalla provvidenziale prescrizione. Il suo nome salta fuori già nelle inchieste sui Mondiali di calcio del 1990: in quel caso lo proscioglie «perché il fatto non sussiste» il gip Augusta Iannini, ora componente dell’autorità della Privacy, incidentalmente consorte del conduttore di Porta a Porta Bruno Vespa. Per arrivare ai processi sull’alta velocità, con un non luogo a procedere: stavolta perché prescritto, insieme ad altri sei fra cui il senatore Luigi Grillo, che poi vedremo comparire nelle indagini sull’Expo di Milano.
Di Incalza, pugliese di Francavilla Fontana, non c’è ministro che non provi soggezione. Al punto che incontrandoli insieme risulta difficile all’interlocutore distinguere chi dei due comandi davvero lì dentro. Se debba tutto all’ex amministratore delegato delle Ferrovie Lorenzo Necci, è difficile dire. Certo è che il momento di svolta della sua lunga carriera è proprio l’incarico di gestire la società dell’alta velocità ferroviaria.
Prima di allora è stato dirigente della Cassa del Mezzogiorno. Dove si inizia a cementare il suo legame con il mondo politico. Socialisti, soprattutto. Nel 1985 il governo Craxi lo nomina alto dirigente generale del ministero e gli viene affidato l’incarico di fare il piano generale dei Trasporti. Una leva di potere formidabile. I ministri si avvicendano, dal socialista Claudio Signorile al democristiano Carlo Bernini, ma lui è sempre al suo posto. Finché Necci non arriva alle Ferrovie e gli mette in mano la Tav. È Incalza che nel 1991 firma le concessioni con Iri, Eni, Fiat e Montedison che prefigurano l’ultima spartizione a tavolino dei grandi appalti. Quando poi cinque anni dopo Necci viene estromesso e al suo posto arriva Giancarlo Cimoli, anche Incalza deve lasciare la Tav, ma resta come responsabile dei grandi investimenti delle Fs e uno stipendio profumatissimo. Ed è ancora Incalza che rispunta nel 2001 al ministero delle Infrastrutture al fianco di Pietro Lunardi, conosciuto quando la sua società Rocksoil progettava i tunnel per i treni veloci. Anni in cui il suo potere cresce, irrefrenabile.
Antonio Di Pietro riesce a metterlo da parte. Siccome però per garantire poltrone a tutti il governo Prodi spacchetta il ministero, ecco che Incalza si può comodamente rintanare ai Trasporti di Alessandro Bianchi in attesa che passi la buriana dipietrista. Non deve aspettare molto. Torna Berlusconi e torna pure lui per altri sette lunghi anni. Tocca ora ai magistrati aprire gli armadi.. .
Sergio Rizzo
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