BIG Maria. Oppure, magari, La Grande Canna. I padroni dell’erba. O comunque si decida di chiamare l’incrocio fra quelli che, nell’economia americana, sono l’industria storicamente più redditizia e il settore, oggi, in crescita più vertiginosa. Negli Usa, è già “Big Pot”: il negato, ma, per molti, inevitabile matrimonio fra Big Tobacco e il “cannabusiness”, nome ormai ufficiale della marijuana legalizzata. Insomma, quando rollarsi una Marlboro assumerà un significato tutto nuovo. Nel corso del 2014, il giro d’affari della marijuana legale è passato da zero a 2,4 miliardi di dollari, nonostante sia possibile fumarla liberamente solo in due Stati (il Colorado e l’Oregon) e utilizzarla a fini medicinali in un’altra dozzina come New York e California. Praticamente, lo stesso fatturato faticosamente raggiunto dalle sigarette elettroniche. Ora gli Stati che consentono un uso ricreativo della marijuana (cioè fumare uno spinello) sono diventati cinque: si sono aggiunti Washington, Alaska e il distretto di Columbia, cioè Washington, intesa come la capitale. Del resto, la legalizzazione della marijuana ha un consenso di massa: il 70 per cento degli americani nati dopo il 1980 è favorevole. Ma lo è anche più della metà dei loro genitori: i baby boomers, la generazione della scoperta di massa della marijuana. E finanche un buon terzo dei nonni: i nati fra il 1928 e il 1945, che la marijuana l’hanno vista da adulti. Un numero consistente non si limita a parlarne. Più di 19 milioni di americani con un’età superiore a 12 anni hanno dichiarato, nel 2012, di essersi fatti una canna, probabilmente, al contrario di Bill Clinton, inalando a pieni polmoni. Quasi otto milioni lo fa tutti i giorni. Un mercato assai appetibile: gli esperti hanno già calcolato che, se la marijuana diventasse legale in tutti i 50 Stati del paese, il giro d’affari sarebbe subito di oltre 36 miliardi di dollari l’anno. Per dire: quasi quanto il cibo organico.
Chi si prenderà questo mercato? Il settore è, attualmente, un ribollìo di iniziative più o meno avventurose di piccole aziende. Ma Leonid Bershidsky, opinionista di Bloomberg , non ha dubbi. Chi è nella posizione perfetta per catturare questi milioni di consumatori è Big Tobacco. I giganti della sigaretta, elenca Bershidsky hanno già in piedi i sistemi di distribuzione (la marijuana a scopi medicinali viene già venduta attraverso i tabaccai), le macchinette automatiche, le fabbriche per fabbricare gli spinelli e anche i vaporizzatori per inalarli, come con le sigarette elettroniche, i laboratori di ricerca e, naturalmente, una enorme massa d’urto finanziaria. Chi pensa che Big Tobacco sia stato fiaccato dalla gragnola di divieti di fumo che gli sono piovuti addosso, infatti, si sbaglia. Tuttora, Philip Morris (Marlboro) fattura oltre 135 miliardi di dollari l’anno, Reynolds (Camel, Winston) 73 miliardi, Lorillard (Kent, Newport) 40 miliardi. Divieti o no, nel 2004 i fumatori, negli Usa, erano il 21 per cento della popolazione. Nel 2011, erano poco di meno: il 19 per cento. E Big Tobacco resta una gallina dalle uova d’oro. Dal 2005 ad oggi, le azioni delle aziende di Big Tobacco sono cresciute di quasi il 200 per cento. Quelle dell’hi-tech, per fare un confronto, nonostante il boom dei computer, di Internet e degli smartphone, di meno del 100 per cento.
Big Maria, allora? All’ipotesi di sbarcare sul terreno della marijuana aziende come la Philip Morris, come rivelato da varie inchieste giornalistiche, ci avevano pensato seriamente a cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70, ma qualsiasi progetto fu abbandonato negli anni ‘80. Riprenderlo oggi non è così semplice. I giganti del tabacco sono già abbastanza assediati da norme e divieti ed è difficile che abbiano voglia di coltivare nuove polemiche. Soprattutto, l’ostacolo, negli Usa, è politico. I bastioni di difesa di Big Tobacco sono gli Stati in cui le aziende sono una forza economica e un serbatoio di occupazione: dove si coltiva il tabacco e si producono sigarette. La controprova è che sono anche gli Stati un cui i divieti di fumo sono più radi e meno pervasivi. Di fatto, la cintura di Stati del Sud, a est del Rio Grande. Dal Texas alla Georgia, alla Carolina del Sud, su fino a Kentucky, Tennessee, Virginia. Il problema è che questi sono anche gli Stati tradizionalmente conservatori, in cui lo spinello può ancora portare in prigione.
Insomma, dicono gli esperti, Big Tobacco non metterà i piedi nel piatto della marijuana fino a quando non avrà una copertura federale. Fino a quando, cioè, lo spinello non sarà legale anche agli occhi della Dea, l’agenzia antidroga federale che, sulla base della legislazione attuale, potrebbe in teoria bloccare l’uso della marijuana anche dove un referendum lo ha reso possibile. La novità è che qualcosa si sta muovendo. Per la prima volta, il Senato di Washington discuterà pubblicamente e ufficialmente della marijuana. Tre senatori hanno, infatti, presentato nei giorni scorsi, un progetto di legge che impedirebbe alle autorità federali di interferire nelle decisioni prese dagli Stati sull’uso o meno della marijuana. È un classico tema libertario e, infatti, i presentatori sono due democratici e un repubblicano come Rand Paul, possibile candidato alle prossime presidenziali, da sempre sostenitore dei diritti degli Stati contro le ingerenze federali. Fra le righe, il progetto di legge fa, però, qualcosa di più: riconosce per la prima volta, a livello federale, il valore medicinale della marijuana, il grimaldello che, a livello statale, sta portando alla sua progressiva liberalizzazione. E la presenza di Rand Paul spinge a fare due più due. Il potenziale candidato alle presidenziali è da sempre un sostenitore dei diritti degli Stati, ma rappresenta anche al Senato il Kentucky: Stato di piantagioni di tabacco e di fabbriche di sigarette, dove Big Tobacco è un nome che conta.