Caso Nemtsov, il presunto killer ritratta “Costretto a confessare sotto tortura”

Caso Nemtsov, il presunto killer ritratta “Costretto a confessare sotto tortura”

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MOSCA . Si sfalda l’inchiesta, apparsa subito troppo rapida e troppo facile, sull’omicidio di Boris Nemtsov. Il principale accusato, l’ufficiale ceceno Zaur Dadaev, sostiene di essere stato costretto a confessare sotto tortura e manda all’aria le certezze ostentate fin qui dagli investigatori. La denuncia scatena polemiche e imbarazzi mentre viene fuori una notizia, smentita dal Cremlino, ma che rende il quadro più inquietante: una “lista delle fucilazioni” secondo un cupo gergo staliniano. Ci sarebbero tre persone da eliminare dopo Nemtsov: Mikhail Khodorkovskij, oligarca incarcerato per oltre dieci anni e adesso esule a Zurigo; Aleksej Venediktov, storico direttore della radio semi-indipendente Eco di Mosca ; infine Ksenja Sobcjak, figlia del gorbacioviano sindaco di San Pietroburgo degli Anni ‘80, starlette televisiva nota come “la Paris Hilton russa”, da anni legata al mondo della protesta anti-Putin. Le voci sulla lista nera hanno avuto un seguito quasi immediato. Ieri mattina, la signora finlandese Kulle Pispanen che cura le pubbliche relazioni per Khodorkovskij a Mosca ha trovato davanti alla porta di casa una corona funebre. Contemporaneamente Ksenja Sobcjak faceva sapere di voler rimanere all’estero dove si trova adesso. Qualche giorno fa, ai funerali di Nemtsov, stava parlando con il suo “compagno di lista” Venediktov quando uno sconosciuto le si è avvicinato dicendole: «La prossima sei tu».
Ma le preoccupazioni degli oppositori restano marginali per il comitato investigativo travolto dalla rivelazione attribuita a Dadaev. È successo infatti che martedì pomeriggio sia stata ammessa al carcere di Lefortovo una delegazione di rappresentanti delle ong sui diritti umani per verificare le condizioni di detenzione dei cinque arrestati. Tra questi c’era anche una giornalista del Moskovskij Komsomolets che ieri mattina ha pubblicato un’intervista clamorosa. «Sono stato picchiato e torturato. — avrebbe detto Dadaev — Sono stato due giorni con un cappuccio legato attorno alla testa. Poi mi hanno promesso che se avessi confessato avrebbero liberato un mio amico. Ho pensato: salvo lui, arrivo vivo davanti al giudice e sconfesso tutto. Ma non mi hanno più lasciato parlare ».
Furiosa la reazione del pool di magistrati e poliziotti che indaga sul delitto. Secondo prassi è partita subito un’inchiesta sulla giornalista e sull’attivista che la aveva portata con sé, entrambi rei di «aver posto all’imputato questioni relative alle indagini anziché limitarsi a visionare il suo stato di salute». Previsti a breve interrogatori e perquisizioni. Si teme una ulteriore restrizione di certe visite autorizzate nelle carceri. In ogni caso l’inchiesta va avanti sulla sua antica strada. Fonti ufficiose fanno sapere che «a dispetto dell’intervista pubblicata, Zaur Dadaev non ha mai ritrattato formalmente la sua confessione». Resta lui dunque, per la Procura, il capo di un commando tutto ceceno che avrebbe deciso e messo a segno l’omicidio. Anche se altri pezzi rischiano di volare via.
Le telecamere di servizio di un locale notturno scagionerebbero infatti un altro dei cinque arrestati che certamente non sarebbe stato presente sul luogo del delitto. Un’insolita guerra di notizie e indiscrezioni che sembra originata, dicono in tanti, da una guerra in corso tra gli investigatori stessi che farebbero arrivare all’esterno notizie un tempo invece blindatissime.


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