Prodi: «Io mediatore in Libia? Ipotesi superata Un intervento provocherà un altro Iraq»

Prodi: «Io mediatore in Libia? Ipotesi superata Un intervento provocherà un altro Iraq»

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BOLOGNA « Spero che in Libia la forza della disperazione faccia il miracolo: se sono tutti a Rabat è perché sono disperati. L’Isis è diventato tragico fattore unificante nella politica mondiale. Per la prima volta, tutte le grandi potenze hanno la stessa paura, anche se non la stessa politica, Cina, Russia, Europa, Usa. Mi auguro che a Rabat i Paesi che hanno influenza — e includo anche Egitto, Algeria, Turchia e Qatar — siano finalmente d’accordo nell’attivare ognuno le proprie leve e canali».
L’ha vissuta sin dall’inizio, la crisi libica, Romano Prodi. Fu lui, da presidente della Commissione europea, a invitare a Bruxelles un Gheddafi «stanco di fare il trouble maker e di creare tensione nella regione sub-sahariana». Uno sdoganamento «all’inizio molto criticato nel mondo anglosassone», che poi però fu il primo a correre verso il colonnello, annusando buoni affari. Il fragile equilibrio che ne seguì, con Gheddafi fattore di relativa stabilità all’esterno e dittatore spietato all’interno, venne però spazzato via dalla guerra, sull’onda delle primavere arabe.
«Con la morte di Gheddafi — spiega Prodi, ricevendomi nella sede della sua “Fondazione per la collaborazione fra i popoli” — i mercenari privi di paga si sono presi quello che c’era: una montagna di armi. In questo quadro caotico, è caduto l’intervento militare Nato, privo però di ogni idea forte sul dopo, a parte la vaga ipotesi di elezioni. Da allora, ci sono state solo rotture progressive, fino ai governi contrapposti di Tobruk e Tripoli, con la complicazione nell’ultimo anno dell’Isis, forse non così forte numericamente, ma potentissimo quando si muove in un ambiente pieno di ambiguità. Ora è un incessante bagno di sangue. Ma c’è per fortuna la convinzione generale che un intervento esterno sul terreno sia impossibile, per la natura frammentata dello scontro e perché avrebbe l’effetto di unire tutti contro l’invasore. Rischieremmo un secondo Iraq».
Presidente Prodi, perché la mediazione dell’Onu si è rivelata insufficiente?
«L’handicap della mediazione è stato il ritardo con cui venne lanciata. La situazione era già deteriorata. Avremmo dovuto forzare di più le parti».
E l’Europa?
«Non c’è stata. Non ha avuto una politica, in Libia come altrove. È stata divisa, sempre. Devo aggiungere, per esperienza personale, che quando è in ballo il Mediterraneo, è difficile attirare l’attenzione dei Paesi del Nord. Quand’ero alla Commissione, hanno sempre bocciato ogni mia proposta, come la Banca per il Mediterraneo o le università miste. Dopo l’allargamento a Est, l’unica vera esportazione di democrazia della Storia, avevamo l’impegno di dare una risposta anche a Sud. Quell’impegno non è stato onorato. Oggi ne paghiamo il prezzo».
L’ipotesi del suo ruolo come mediatore resta attuale?
«Nell’estate 2014 ci sono state nuove richieste libiche, dirette al governo italiano, per una mia mediazione. Ma anche in questo caso, come già nel 2011, non c’è stato alcun riscontro. Ho incontrato il presidente Renzi a Palazzo Chigi il 15 dicembre e l’unico discorso personale ha riguardato l’ipotesi, avanzata da lui, di una mia candidatura a segretario generale dell’Onu. Io l’ho ringraziato per l’onore, ma gli ho spiegato che a 77 anni, quanti ne avrò alla scadenza di Ban Ki-moon, non è facile ricoprire quella carica. Inoltre, c’è un forte supporto politico per altri candidati. Quella di una mia mediazione in Libia, mi sembra un’ipotesi superata dai fatti».
Parliamo dell’Ucraina. È ottimista che l’accordo di Minsk possa essere rispettato?
«Mi sembra vada meglio del primo. Penso che nessuno abbia ora interesse a rompere il filo della diplomazia».
Lei si è detto rattristato dall’assenza dell’Ue a Minsk.
«Molto».
Ma se l’Alto Rappresentante per la politica estera si fosse chiamato Tony Blair, Joschka Fischer oppure Romano Prodi, sarebbe stato escluso dal vertice bielorusso?
«È chiaro che qualcuno con forza politica e rapporto personale consolidato con chi sedeva a Minsk poteva avere più possibilità di esserci. È ben noto che la politica si nutre di rapporti personali. Federica Mogherini ha tempo e possibilità di costruirli».
Ci spiega la proposta sulla gestione comune del gas in Ucraina?
«Ne ho parlato con Putin, Gentiloni, Mogherini e col ministro degli Esteri tedesco. Qual è l’interesse comune a Russia, Europa e Ucraina? La sicurezza di vendite e forniture di gas. Ora che Mosca, per ragioni di convenienza, ha rinunciato al South Stream, ho proposto di fare una società con quote paritarie, tra Russia, Ue e Kiev. Servirebbe a gestire in comune trasporto e distribuzione del gas senza spendere nulla. Se Mosca e l’Europa sono d’accordo, l’Ucraina è obbligata a starci».
Il gas come il carbone e l’acciaio della Ceca, che nel Dopoguerra chiuse la rivalità tra Francia e Germania?
«Esattamente. I tubi sono lì. Ognuno consegue i propri obiettivi, le tensioni calano. Ci sono reazioni positive».
Trova opportuna la visita di Renzi a Mosca?
«Certo. Quando si rimprovera all’Italia una posizione morbida sulle sanzioni alla Russia, occorre ricordare che c’è una regola generale sull’equa distribuzione dei sacrifici. Queste sanzioni non sono eque. Le esportazioni americane verso la Russia sono aumentate. Il danno subito dall’economia Usa è pari a zero. Se un Paese agisce diversamente in base alla propria situazione oggettiva, non possiamo chiamarla viltà».
Lei ha detto che dopo la fine della Guerra Fredda, Russia ed Europa hanno sprecato l’occasione di costruire un ordine globale cooperativo. Di chi sono le responsabilità?
«La questione è controversa. Era stato promesso, in modo ufficiale o ufficioso, che non si sarebbe portata la Nato ai confini della Russia. Diversa fu la decisione riguardo ai Paesi Baltici. Ma nel 2008, ci fu la proposta di far entrare Georgia e Ucraina nell’Alleanza. Al vertice di Bucarest, insieme con Germania e Francia, io votai contro. Fu l’ultimo atto del mio governo. Era una questione di buon senso. Ma da quel momento, la Nato è ridiventata un’ossessione per i russi. In verità era già cominciato con l’Iraq. Me lo disse Putin, una notte nel 2003, nell’immediata vigilia del conflitto: “Dobbiamo far di tutto per evitare la guerra, perché dopo l’Iraq verrà la Georgia e poi l’Ucraina”. Ma perché lo dici a me, gli chiesi, io sono presidente della Commissione, non ho competenze di politica estera. Proprio per questo, rispose, voglio un consiglio. Ma era troppo tardi. Ricordo però con chiarezza che Putin era sconvolto. Allora si aprì una ferita non ancora richiusa. Ora però ci sono sufficienti interessi comuni per farlo».
Ma come trovare l’equilibrio tra interessi e valori nei rapporti con Mosca? Si possono ignorare autoritarismo e violazioni del diritto internazionale da parte di Putin?
«Una politica di apertura aiuta la democrazia. Mercato aperto e scambi culturali sono il modo migliore per far avanzare valori democratici e diritti umani. È la paura che ci rende insegnanti e non dialoganti. Probabilmente la fragilità dei sistemi democratici giustifica le nostre paure. Ma solo una democrazia dialogante può contaminare positivamente i sistemi autoritari. Una democrazia che si vuole maestra, con la bacchetta e magari il fucile, rischia di essere controproducente. D’altra parte, dialogare con San Francesco è facile. Il problema è parlare con il lupo».
Paolo Valentino


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