«L’intesa nucleare? Sarà solo l’inizio» L’Iran giovane sogna il cambiamento
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TEHERAN Erano ancora tanti, due settimane fa, all’anniversario della Rivoluzione khomeinista, a scandire lo slogan «Morte all’America». Ma 36 anni dopo l’atto di fondazione della Repubblica Islamica, la rituale demonizzazione dell’Occidente non basta più da sola a definire lo Zeitgeist, lo spirito del tempo di una società in piena evoluzione, che sembra stregata dalla prospettiva di mettersi alle spalle oltre tre decenni d’isolamento dal resto del mondo.
L’Iran, che due anni fa ha scelto di credere alle promesse riformiste di Hassan Rouhani, guarda con un misto di speranza e scetticismo al guado più difficile della sua storia recente. L’esito del negoziato nucleare, che da domani entra nella sua fase decisiva a Montreaux, in Svizzera, è infatti ormai parte dell’immaginario collettivo come momento esistenziale, in grado di condizionare ogni sviluppo futuro. Secondo un sondaggio Gallup condotto a novembre, il 70% degli iraniani spera che le trattative con i Paesi del gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia più Germania) portino a un accordo accettabile per tutti. Erano il 58% l’anno precedente. È uno stato d’animo sul quale pesano elementi diversi.
Quali che siano i dettagli dell’eventuale intesa del Lemano, il baratto è chiaro: limiti al programma atomico persiano, in cambio della fine dell’embargo che ha morso nel vivo l’Iran, privandolo fra l’altro di quasi 150 miliardi di dollari, tutti congelati all’estero. È quindi il rilancio a breve termine dell’economia, che oltre alle sanzioni paga le politiche populiste di Ahmadinejad rivolte a sovvenzionare i ceti popolari, la prima preoccupazione di Rouhani. Il presidente lo ha ripetuto ieri nel colloquio con Paolo Gentiloni, ultimo appuntamento del viaggio iraniano del nostro ministro degli Esteri: senza fine delle sanzioni non ci potrà essere accordo.
Per Rouhani e i suoi riformatori è questione di sopravvivenza. Glielo chiedono gli imprenditori: «Ho un piano di sviluppo edilizio molto importante, ma mi servono investitori occidentali. Aspetto solo l’intesa nucleare», spiega Majid, businessman con interessi in vari campi. E glielo chiede il bazaar, termometro infallibile dello scontento della classe media, che ha pagato più di tutti la crisi, stringendo la cinghia e facendo crollare i guadagni dei bazaari, i commercianti. «Attenzione però — dice Firouz, architetto che ha studiato in Europa — un accordo con gli occidentali sul nucleare è nell’interesse di tutti: della nostra economia non più che delle vostre». Un esempio per noi doloroso: in 12 anni di sanzioni, l’interscambio con l’Italia si è ridotto da 7 a poco più di 1 miliardo di dollari l’anno.
L’economia racconta solo una parte della storia. Tra autoritarismo religioso e democrazia, l’Iran è oggi un Paese dalle molteplici identità. E dalla coltre dell’ufficialità islamica, della sharia e della censura affiora dirompente una realtà viva, moderna, insofferente e a volte sfacciata. Cinema d’essai, come la catena Arte e Sperimentazione, che proiettano film scomodi; parchi come Gheitarieh dove la notte centinaia di giovani si ritrovano a suonare e cantare musica occidentale; graffitari che raccontano l’insofferenza; centinaia di gallerie d’arte indifferenti alla censura; feste private senza velo per le donne e alcol per tutti.
Non poteva essere diversamente in un Paese giovanissimo, nel quale 2 persone su 3 sono nate dopo il 1979, l’anno della Rivoluzione islamica, con una scolarizzazione molto alta. Dove le donne, pagata la tassa del velo, sono la parte più attiva della popolazione, presenti a ogni livello della società, hanno possibilità di scelta identiche agli uomini e rappresentano il 60% degli universitari.
In un caffè incontro Sarah, studentessa di architettura: «Certo che vogliamo un accordo sul nucleare, ma sarà solo l’inizio. Poi Rouhani non avrà più alibi. Non potrà più invocare le sanzioni come causa di tutti i mali e dovrà occuparsi anche di altre cose, aprire di più la società. Sa bene che senza il voto dei giovani non potrà mai essere rieletto». Prima di salutarmi, si toglie disinvolta il velo colorato che indossa e lo sostituisce con uno nero tirato fuori dalla borsa. «Devo andare all’università, ho una lezione», mi spiega sorridendo.
Quali che siano i dettagli dell’eventuale intesa del Lemano, il baratto è chiaro: limiti al programma atomico persiano, in cambio della fine dell’embargo che ha morso nel vivo l’Iran, privandolo fra l’altro di quasi 150 miliardi di dollari, tutti congelati all’estero. È quindi il rilancio a breve termine dell’economia, che oltre alle sanzioni paga le politiche populiste di Ahmadinejad rivolte a sovvenzionare i ceti popolari, la prima preoccupazione di Rouhani. Il presidente lo ha ripetuto ieri nel colloquio con Paolo Gentiloni, ultimo appuntamento del viaggio iraniano del nostro ministro degli Esteri: senza fine delle sanzioni non ci potrà essere accordo.
Per Rouhani e i suoi riformatori è questione di sopravvivenza. Glielo chiedono gli imprenditori: «Ho un piano di sviluppo edilizio molto importante, ma mi servono investitori occidentali. Aspetto solo l’intesa nucleare», spiega Majid, businessman con interessi in vari campi. E glielo chiede il bazaar, termometro infallibile dello scontento della classe media, che ha pagato più di tutti la crisi, stringendo la cinghia e facendo crollare i guadagni dei bazaari, i commercianti. «Attenzione però — dice Firouz, architetto che ha studiato in Europa — un accordo con gli occidentali sul nucleare è nell’interesse di tutti: della nostra economia non più che delle vostre». Un esempio per noi doloroso: in 12 anni di sanzioni, l’interscambio con l’Italia si è ridotto da 7 a poco più di 1 miliardo di dollari l’anno.
L’economia racconta solo una parte della storia. Tra autoritarismo religioso e democrazia, l’Iran è oggi un Paese dalle molteplici identità. E dalla coltre dell’ufficialità islamica, della sharia e della censura affiora dirompente una realtà viva, moderna, insofferente e a volte sfacciata. Cinema d’essai, come la catena Arte e Sperimentazione, che proiettano film scomodi; parchi come Gheitarieh dove la notte centinaia di giovani si ritrovano a suonare e cantare musica occidentale; graffitari che raccontano l’insofferenza; centinaia di gallerie d’arte indifferenti alla censura; feste private senza velo per le donne e alcol per tutti.
Non poteva essere diversamente in un Paese giovanissimo, nel quale 2 persone su 3 sono nate dopo il 1979, l’anno della Rivoluzione islamica, con una scolarizzazione molto alta. Dove le donne, pagata la tassa del velo, sono la parte più attiva della popolazione, presenti a ogni livello della società, hanno possibilità di scelta identiche agli uomini e rappresentano il 60% degli universitari.
In un caffè incontro Sarah, studentessa di architettura: «Certo che vogliamo un accordo sul nucleare, ma sarà solo l’inizio. Poi Rouhani non avrà più alibi. Non potrà più invocare le sanzioni come causa di tutti i mali e dovrà occuparsi anche di altre cose, aprire di più la società. Sa bene che senza il voto dei giovani non potrà mai essere rieletto». Prima di salutarmi, si toglie disinvolta il velo colorato che indossa e lo sostituisce con uno nero tirato fuori dalla borsa. «Devo andare all’università, ho una lezione», mi spiega sorridendo.
Paolo Valentino
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