La giornata si alterna fra il Palazzo di Vetro a New York, e il vertice di Washington. Uniti da un tema comune: la violenza che dilaga usando come terreno di coltura il fondamentalismo islamico. All’Onu il Consiglio di sicurezza ha discusso l’emergenza di una nuova minaccia: dopo Siria e Iraq, anche la Libia diventa un terreno di penetrazione dello Stato Islamico; e da lì nuovi attacchi possono colpire anche degli obiettivi europei o americani. Ma non è all’ordine del giorno un intervento militare in Libia, dopo le operazioni aeree in atto in Siria e in Iraq. Ci ripensa perfino l’Egitto. Il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi aveva ordinato un raid della sua aviazione in Libia per vendicare i 21 egiziani di religione cristiana (copti) decapitati dai jihadisti. Poi Al Sisi aveva evocato la necessità di un intervento militare contro le basi islamiste in Libia, con la legittimazione di una risoluzione Onu. Si è accorto di non avere consensi sufficienti in seno al Consiglio di sicurezza e neppure tra gli alleati arabi. Il progetto di risoluzione presentato dal gruppo di Paesi arabi all’Onu si limita a chiedere che siano tolte le restrizioni sulle forniture di armi al governo libico riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale. Si chiede anche «una accresciuta vigilanza sui mari e nei cieli, per impedire che arrivino armi alle milizie dello Stato Islamico». Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna in una dichiarazione comune hanno ribadito la necessità di lavorare a una «soluzione politica del conflitto». L’Italia ha aggiunto un’urgenza particolare: «Il tempo è contato ». L’ambasciatore egiziano all’Onu ha definito «inconcepibile che lo Stato Islamico venga contrastato con determinazione in Siria e Iraq, mentre viene ignorato in Libia». L’Egitto ne attribuisce la responsabilità ai paesi europei che furono protagonisti dell’intervento militare per deporre Gheddafi nel 2011 e poi «hanno lasciato la missione incompiuta, abbandonando il popolo libico alle milizie estremiste ».
Nel summit anti-terrorismo convocato a Washington, Obama ha invocato l’unione di un ampio fronte per «screditare e delegittimare » gli estremisti, affrontando alla radice le condizioni che permettono di propagare le loro «ideologie dell’odio». Riferendosi proprio ai bombardamenti che la US Air Force sta conducendo in Siria e Iraq, Obama ha detto che «non possono essere la sola risposta alla violenza estremista ». La peculiarità del summit di Washington sta in questo approccio e nell’arco di forze che riunisce. È il tentativo di costruire una risposta da “soft power”, una battaglia delle idee, per una nuova egemonia culturale che estirpi le radici del jihadismo. Obama ha radunato a Washington rappresentanti della società civile, sindaci di città americane e straniere, tra cui Anne Hidalgo, sindaco di Parigi. Lo scopo è scambiare esperienze comuni, esplorare le iniziative che si sono rivelate più utili per integrare gli immigrati di religione islamica e sottrarli ai richiami dell’estremismo, costruire fiducia reciproca, vaccinare i giovani dalla violenza. «Noi dobbiamo affrontare gli estremisti violenti — ha detto Obama — anche quando non sono implicati direttamente in atti terroristici, ma incitano altri a farlo. Dobbiamo dare nuovi mezzi a quelle comunità che sono prese di mira».
Oggi e domani ai lavori del vertice interverranno anche molti rappresentanti di governi di tutto il mondo, ma per ragioni di sicurezza la Casa Bianca ha deciso che ne diffonderà l’elenco solo all’ultimo.