Ucraina, la tregua regge Ma sul fronte di Debaltsevo i cannoni sparano ancora

Ucraina, la tregua regge Ma sul fronte di Debaltsevo i cannoni sparano ancora

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COLLINE ATTORNO A DEBALTSEVO Il fragore delle artiglierie non giunge inaspettato. Si ode già da molto lontano, sono obici pesanti, cannoni e mortai a lunga gittata. Ogni tanto il crepitare di mitragliatrici. Rombi cupi, persistenti, che scuotono l’aria immobile.
Non ci sono altri rumori: chi ha potuto è fuggito, chi ancora resta cerca di nascondersi. Le strade tutto attorno sono bloccate dai crateri delle bombe e dalle barricate fatte di macerie e carcasse di automezzi. I miliziani filorussi da giorni lasciavano capire che la fine dei combattimenti, mediata con fatica dagli europei, per loro non avrebbe avuto alcun valore nell’enclave contesa della città di Debaltsevo. E ieri lo hanno provato con i fatti.
Sui circa 500 chilometri di confini imprecisi che corrono tra i filorussi e i soldati di Kiev dall’inizio del cessate il fuoco, allo scoccare della mezzanotte di sabato, gli spari sono sostanzialmente terminati (fanno eccezione colpi sporadici senza vittime segnalati nelle cittadine di Luhansk e Raihorodka). Ma a Debaltsevo si continua a combattere e morire. Dentro la sacca potrebbero trovarsi ancora migliaia tra civili e soldati ucraini. Si parla di cadaveri insepolti, cantine piene di feriti, condizioni sanitarie impossibili per gli assediati.
«Abbiamo tutto il diritto di sparare per il semplice fatto che questo territorio ci appartiene. Qui gli accordi con Kiev non si applicano, non hanno valore», ha ribadito in mattinata Eduard Basurin, uno dei portavoce dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, il bastione più importante dei separatisti nell’Ucraina orientale. La crisi dunque resta aperta. Nelle stesse ore i ribelli hanno bloccato la strada agli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). I loro gipponi bianchi sono ben noti da queste parti. Rappresentano il desiderio europeo di monitorare e, se possibile, disinnescare le tensioni. Nel luglio scorso furono i testimoni più importanti della tragedia dell’aereo della Malaysia Airlines abbattuto nel corso dei combattimenti attorno a Donetsk (298 morti). «Siamo stati fermati. Ma cerchiamo di raggiungere la città assediata. Sappiamo che vi sono ancora intrappolati civili e versano in condizioni di difficoltà estrema. Potremmo anche utilizzare droni per osservare meglio», ha dichiarato poi il loro portavoce, Michael Bociurkiv.
Sull’ottantina di chilometri di strada tutto sommato passabile che separa Donetsk dalle postazioni prorusse marcanti la sacca di Debaltsevo abbiamo incontrato un’atmosfera di guardinga normalità. Distributori aperti, posti di blocco rilassati, con i miliziani contenti di godersi il pallido sole in santa pace.
Nel centro della città di Ienakievo gli abitanti sono più che altro intenti a fare compere e guadagnare quattro soldi. I bombardamenti degli ultimi mesi li avevano ridotti a un’esistenza da topi. Al mercato della domenica mattina i contadini offrono zucche, mele e cetrioli a prezzi irrisori. Cinque o sei persone esaminano con attenzione un mucchio disordinato di scarpe usate che in Italia troveremmo solo nella spazzatura. Anziani e giovani con le calzature sfondate, imbacuccati in vecchi cappotti ridotti alla povertà quasi assoluta, vendono per mezzo euro al paio calze e guanti fatti a mano da gomitoli di finta lana. «Le grandi acciaierie dell’era sovietica sono chiuse da un pezzo. Un anno fa il governo di Kiev ha terminato di pagare pensioni, stipendi e assistenza sanitaria qui nella regione filorussa. Non abbiamo più nulla. E purtroppo la tregua non durerà. Presto si ricomincerà a sparare», sostengono rassegnati Alexiei e Ljuba, entrambi poco più che trentenni, entrambi licenziati da lungo tempo, entrambi ridotti alla pura sopravvivenza. I loro traffici rendono a ognuno meno di 30 euro al mese.
Poco più avanti torna prepotente la guerra. Tra le undici e le quattordici abbiamo sentito esplosioni continue. I miliziani bivaccano tra trincee rafforzate con traversine di ferrovia devastata dalle bombe. Una volta era la linea diretta per Kiev. Oggi porta da nessuna parte. Ponti distrutti, alberi divelti, campi bruciati, crateri di bombe vecchie e nuove: termina l’asfalto, ci si addentra in un dedalo di viottoli scomposti e fangosi per raggiungere la prima linea.
In una zona erbosa posta a una decina di chilometri da Debaltsevo siamo fermati dagli uomini di un’unità di artiglieria: alle loro spalle sono posizionati cinque cannoni di costruzione russa da 120 millimetri, tutto attorno decine di bossoli esplosi. «Ovvio che spariamo. I fascisti ucraini ci tirano contro, sono stati loro a rompere la tregua, noi rispondiamo. La differenza è che loro combattono per i soldi, noi per la patria», dice il comandante 23enne Kiril Mishenko. Lui e i suoi soldati sono pronti a giurare che nella città restano «circondati almeno cinquemila soldati ucraini e altrettanti sono morti». Dei civili, dice di non sapere niente. «Li usano come scudi umani», azzarda, ripetendo un adagio classico della propaganda di ogni conflitto. L’unità resta ben posizionata. Nessun arretramento, le riserve di proiettili vengono rafforzate. Ovvio che la loro battaglia finale per la presa dell’enclave non è ancora cominciata.


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