Quelle morti sempre più shock nel videogioco medioevale dei registi dello Stato islamico

Quelle morti sempre più shock nel videogioco medioevale dei registi dello Stato islamico

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IL VIDEOGIOCO del nostro medioevo contemporaneo si avvale di sceneggiatori maniacali. Scienziati dell’efferatezza, psicologi di un terrore con cui pretenderebbero di santificare il baratro irreparabile che li separa dal resto dell’umanità. La lingua di fuoco che serpeggia fino a circondare una gabbia in cui hanno rinchiuso il pilota giordano Moaz al Kaseasbeh, arso vivo e carbonizzato, dopo avercene mostrato il volto tumefatto dalle percosse, è un film studiato nel minimo dettaglio. Dura ventidue interminabili minuti. Esordisce con l’umiliazione del prigioniero inerme che recita un monologo di contrizione, coreograficamente circondato da guerrieri mascherati. Segue l’orribile scena madre. Infine, sui resti del pilota una ruspa scarica detriti, mentre compaiono sullo schermo le fotografie degli altri piloti giordani, commilitoni della vittima, sui quali viene posta una taglia, minacciandoli di fare la stessa fine.
Barbarie che, puntuale, genera simmetrica barbarie: il regno hashemita replica al delitto perpetrato dal sedicente Califfato annunciando la decisione di giustiziare la terrorista Sajida al-Rishawi — di cui era stato chiesto il rilascio — insieme a cinque altri detenuti jihadisti. La pena di morte, su cui per anni la Giordania aveva disposto una moratoria, ricompare come strumento di rappresaglia.
Da quando, il 24 dicembre scorso, l’F16 di Moaz fu abbattuto nei dintorni di Raqqa, e lui si era salvato lanciandosi con il paracadute, una sapiente regia ha documentato il supplizio del malcapitato. Lo abbiamo visto denudato, fradicio e stordito, mentre due miliziani lo trascinavano sulla riva di un fiume. Ci è stata trasmessa in seguito un’intervista surreale, nel corso della quale Moaz Kaseasbeh annunciava di essere destinato alla morte. Certo non poteva immaginare il copione accurato, inedito, mostruoso, di cui l’avrebbero reso protagonista quei geni del male assoluto. La gabbia in cui lo avrebbero introdotto vestito con la tuta arancione, attorniato da belve consenzienti.
Si ritiene che lo spettacolo sia stato eseguito a favore di telecamere un mese fa, il 3 gennaio, per poi essere divulgato solo ieri. Forse gli sceneggiatori di questo nuovo genere cinematografico hanno calcolato che il loro pubblico si fosse ormai assuefatto alle decapitazioni — ultime quelle dei due ostaggi giapponesi — e dunque hanno voluto propinarci una ulteriore caduta agli inferi. Per dirci che cosa? Che la crudeltà è una virtù superiore all’onore. Che la vita di un uomo può diventare spettacolo da circo quando ne viene annichilito il valore. Senza neanche bisogno di credere che esista poi una vita eterna prolungata nell’aldilà, perché l’ottuso, blasfemo monoteismo di questi vigliacchi contempla nient’altro che sottomissione e annientamento. Non promettono nulla, i sicari di Al Baghdadi. Non credono in Allah, credono solo in se stessi come superuomini esenti da pietà.
Il regno di Giordania, che si legittima come discendente diretto del Profeta, è un baluardo pericolante della coalizione anti-Is. Da quando è scoppiata la guerra in Siria, i profughi hanno quasi raddoppiato la popolazione della Giordania, uno dei paesi più poveri d’acqua al mondo. Estendere fino a Amman la guerra di conquista, trascinando dalla sua parte la componente islamista finora egemonizzata dalla Fratellanza musulmana, rientra fra gli obiettivi immediati del sedicente Califfato. Questo spiega lo speciale, crudele accanimento di cui è rimasto vittima il pilota giordano.
Ma la macchina della propaganda macabra segue logiche che prescindono da calcoli di natura militare. Vuole affermare una visione terroristica della legge islamica come dominazione purista, capace di disintegrare ogni contaminazione del paganesimo occidentale. Sempre ieri, i registi della morte hanno diffuso un altro video nel quale si mostra la plateale esecuzione a Raqqa di un pover’uomo accusato di omosessualità. Trascinato, legato a una sedia di plastica, fin sul tetto di un palazzo di sette piani, da lassù è stato scaraventato al suolo. E siccome non era morto sul colpo, la folla è stata chiamata a finirlo con la lapidazione. Analoghe spettacolari condanne a morte erano state compiute nei giorni precedenti. Pretesi musulmani che ammazzano altri musulmani: la nozione di infedele, l’accusa di empietà, viene dilatata come un elastico a piacimento. In precedenza avevamo assistito alla crocifissione dei cristiani. E ancora, di recente a Mosul, alla replica della ben nota cerimonia, prima inquisitoria e poi nazista, dei libri bruciati in piazza.
Rituali che vorrebbero descrivere i jihadisti 2015 come guerrieri riemersi da secoli addietro, interpreti contemporanei del tempo delle crociate, quando nei castelli assediati con la catapulta venivano fatte piovere le teste mozzate dei prigionieri. Ma nel disegnare la propria immagine di “persone del passato”, i tagliagole agghindati con tuniche e turbanti non disdegnano certo di utilizzare tecniche hollywoodiane, rivelando la falsità di un Islam posticcio ricostruito attingendo al serbatoio dei luoghi comuni del nemico occidentale.
Sono maschere assassine, figli della degenerazione del tempo presente, replicanti di un videogioco che moltiplica il suo effetto spruzzando sangue vero. Assassini in costume di scena, come l’automa Anders Breivik, lo sterminatore norvegese di Utoya. Maledettamente vera, però, è la guerra che ha consentito al fanatismo tecnologico di occupare un vasto territorio, da cui non solo l’islam, ma tutto il mondo civile, è chiamato ad estirparlo. Il rogo in cui è stato incenerito Moaz al-Kaseasbeh lambisce ormai le nostre case. Non possiamo voltarci dall’altra parte, ne avvertiamo l’odore e l’incandescenza.


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