Il fantasma greco della Merkel

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SIAMO nelle mani dei greci. Se oggi ad Atene prevarrà la sinistra radicale di Syriza e si formerà un governo guidato dal suo presidente, Alexis Tsipras, cambierà lo scenario in tutta l’Eurozona. Lo shock obbligherebbe Germania e associati a scegliere.
UNA terza, profonda ristrutturazione del debito di Atene, da risanarsi alle calende greche e a interessi ulteriormente ridotti, oppure la resa dei conti finale, abbandonando il partner ellenico alla sua sorte di Stato fallito, con il rischio di estendere il contagio al resto dell’area euro. Ovvero, per usare la terminologia corrente nei media e nei sondaggi tedeschi: meglio un orrore senza fine o una fine orribile?
Tutto lascia intuire che la cancelliera Merkel inclini comunque, Tsipras o non Tsipras, verso il primo corno del dilemma, stante anche la sua comprovata avversione per le scelte drastiche. Ma soprattutto perché nessuno può stabilire con certezza se la Grecia sia o meno un paese sistemico, ovvero se la sua eventuale bancarotta possa o non possa produrre il virus capace di stroncare il sistema euro. Nel dubbio, meglio evitare esperimenti.
Malgrado nelle ultime settimane la Cancelliera abbia lasciato filtrare voci tattiche sulla sua disponibilità ad adattarsi all’uscita della Grecia dall’euro perché questa non comporterebbe il collasso della nostra area monetaria, da tempo sono in corso negoziati informali con emissari di Tsipras su tempi e modi della rinegoziazione di un debito pubblico che vale il 175% del Pil. Ed è probabile che qualche seria facilitazione possa essere contrattata anche con un nuovo governo Samaras, non fosse che per premiarne gli sforzi ed evitare che il suo reinsediamento coincidesse con l’aggravarsi della già disastrosa congiuntura economica e sociale.
Certo è che, in caso di nuove concessioni ad Atene, si aprirebbe una falla difficilmente colmabile nella fortezza dell’austerità eretta a dogma dalla Germania, contro buona parte dei suoi partner. A cominciare dal principale alleato europeo, la Francia, che pure evita di contrapporsi al vicino d’oltre Reno per il timore di essere punita dai mercati e per l’ossessione di non lasciare la Germania libera di dedicarsi in solitario a innominabili avventure. E dal leader geopolitico di ciò che resta dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America, che conducono con successo politiche monetarie e fiscali eterodosse rispetto alla teologia germanica.
Nel varco eventualmente aperto dalle urne greche e dalla scelta di Merkel di tenere Atene nell’euro potrebbero infiltrarsi italiani e altri “mediterranei”, che aprirebbero così la strada ai francesi e a tutti quei paesi che non osano rinnegare l’austerità ma non vedono l’ora di cominciare a farlo. In termini pratici, ne potrebbe derivare una (modesta) ventata neokeynesiana nelle politiche economiche europee, ossia l’espansione dell’asfittica domanda interna allentando i vincoli alla spesa pubblica. Troppo tardi e troppo poco? Forse. Ma abbastanza per aprire una crisi nella Germania e con la Germania. I “falchi” della Bundesbank e i sacerdoti della stabilità dei prezzi — pur se l’Eurozona è in deflazione — devono ancora digerire l’ultima mossa di Mario Draghi. La decisione della Banca centrale europea di adottare una sua peculiare versione del quantitative easing, di dimensioni corpose e soprattutto senza limiti temporali definiti — dirimente per cessarlo essendo solo il riportarsi a un tasso di inflazione attorno al 2% — non è piaciuta affatto alla Cancelliera. Sul fronte interno, perché l’espone alle critiche della destra nazionalista, che punta alla creazione di un “euronord” fra economie e culture monetarie affini, con tanti saluti a noi “periferici”. Sul fronte esterno, perché la svolta verso la flessibilità nei conti pubblici inviterebbe gli altri paesi in difficoltà — a cominciare dal nostro — a rinviare le “riforme” (altro lemma passepartout , che lascia adito a interpretazioni diverse).
Comunque vada il voto greco, e nonostante l’avviso contrario dei germanofobi che dilagano nelle piazze di Atene e rialzano la testa negli establishment euroatlantici, l’interminabile eurocrisi conferma che la Germania non è affatto l’egemone d’Europa. Per esercitare una qualche forma di egemonia, come America insegna, bisogna saper organizzare il consenso intorno a sé, anche attraverso opportune concessioni a chi del tuo sistema partecipa. Non chiudersi nelle proprie certezze, per cui ciò che funziona a casa mia funziona per tutti. Se deve durare, l’euro non può essere la moneta dell’ortodossia tedesca. Chi volesse provare il contrario, in nome dell’ortodossia germanica, lo farebbe a rischio e pericolo proprio e del resto d’Europa.


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