Piketty: «Per salvare l’Unione Europea serve ben più di una banca centrale»

Piketty: «Per salvare l’Unione Europea serve ben più di una banca centrale»

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Parigi. Thomas Piketty non si lascia (mai) impressionare facilmente. Il 43enne economista francese, diventato una star internazionale nel corso del 2014 grazie al suo ponderoso bestseller «Il capitale del XXI secolo» (Bompiani), il primo gennaio scorso ha rifiutato la Legion d’Onore che il presidente della Repubblica voleva conferirgli: «Non spetta al governo decidere chi è degno di onori», disse allora Piketty, aggiungendo soprattutto che «sarebbe meglio dedicarsi alla crescita della Francia e dell’Europa». Ieri ci ha provato Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, a rilanciare la crescita del continente con un piano senza precedenti, ma Piketty non sembra convinto. Sullo sfondo, la sua convinzione di sempre, e cioè che senza una unione politica gli sforzi di politica economica sono destinati a fallire, o comunque a non avere un impatto risolutivo. L’errore di partenza degli europei, ossia dotarsi di una moneta comune senza le istituzioni politiche democratiche che potessero sorreggerla, continua a ripetersi. E non saranno le misure prese ieri a Francoforte, per quanto innovative rispetto al passato, a cambiare radicalmente la situazione.
Il piano di «Quantitative easing» annunciato da Draghi è superiore alle attese: 60 miliardi di euro al mese fino al settembre 2016, ossia circa 1.100 miliardi. È una rivoluzione? L’ultima occasione di salvare l’Unione Europea?
«Non esageriamo. L’entità del bilancio della Banca centrale europea potrebbe risalire a circa 3.000 miliardi di euro, che era già il livello raggiunto nel 2012. Questo rappresenterebbe allora l’equivalente del 30 per cento del Pil della zona euro (10 mila miliardi di euro), ma pari solamente al 3 per cento del totale degli attivi finanziari detenuti nella zona euro (100 mila miliardi). Serve ben più di una banca centrale per salvare l’Unione Europea».
La parte più consistente del rischio, l’80 per cento, pesa sulle banche nazionali. Solo il 20 per cento è a carico della Bce. Questo riduce o no la portata dell’annuncio?
«Questa parte delle misure rese note da Draghi è molto strana. Merita di essere studiata più da vicino, ma potenzialmente è molto inquietante, nel momento stesso in cui saremmo chiamati a realizzare l’unione bancaria nella zona euro. Come minimo, l’effetto di annuncio non è molto riuscito».
L’obiettivo è arrivare a un livello di inflazione del 2 per cento. Qual è la sua opinione?
«C’è da temere che questi nuovi acquisti di titoli sfocino in bolle su certi attivi, invece di rilanciare l’inflazione dei prezzi al consumo. La Bce tenta di fare la sua parte, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita europea ci vorrebbe senza dubbio un rilancio budgetario e salariale. La priorità in Europa oggi dovrebbe essere investire nell’innovazione e nelle università».
E come arrivare a questi investimenti?
«Ci vorrebbe una unione politica e fiscale rafforzata della zona euro, con delle decisioni prese a maggioranza in un Parlamento della zona euro realmente democratico. Non si può chiedere tutto a una banca centrale».

Stefano Montefiori



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Tra repubblicani e democratici è già  campagna elettorale. I venti giorni di chiusura dello Stato nel 1995 costarono un punto di crescita del Pil. Fermare la macchina dello Stato, proprio ora che l’occupazione comincia a riprendere, rischia di frenare la crescita economica nel momento più sbagliato

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