Perché Erri De Luca deve essere assolto
Il 28 gennaio avrà inizio il processo a Erri De Luca, imputato di aver pubblicamente istigato a delinquere, inducendo al danneggiamento di cose, incitando a violare i divieti di accesso in aree di interesse strategico e militare. L’incriminazione è conseguenza di una intervista rilasciata al quotidiano Huffington post dove lo scrittore partenopeo ha espresso la sua “ruvida” opinione sulla vicenda della costruzione della Tav in Val di Susa. Senza mezzi termini ha sostenuto che la Tav dovesse essere “sabotata”, mentre le cesoie fossero “utili a tagliare le reti”.
La domanda veniva posta con riferimento specifico all’arresto di due ragazzi, ma è vero che le considerazioni dell’intervistato erano riferite in generale alla lotta dei No Tav. Dopo questa intervista – ma anche in precedenza – alcuni atti di sabotaggio sono stati compiuti da attivisti del movimento No Tav, rivendicandone, in certi casi, il valore “simbolico”. Da qui l’incriminazione.
Si può non essere per nulla d’accordo con quanto sostenuto nell’intervista, ritenere persino pericolose o controproducenti le affermazioni riportate, ma evidentemente non è questo quel che può rilevare in sede processuale. La vera questione trascende di gran lunga la vicenda in sé, coinvolgendo pienamente la nostra concezione di democrazia. In gioco sono, da un lato, i confini alla libertà di manifestazione del pensiero, dall’altro e parallelamente, l’ambito dei reati d’opinione che l’abuso di tale libertà sanziona. Questioni veramente di fondo del nostro vivere civile. Appare opportuno, allora, chiarire anzitutto il quadro dei principi costituzionali coinvolti per verificare poi come questi si specificano nel caso concreto.
La nostra Costituzione richiama un solo limite espresso che può opporsi alla libertà di manifestare il proprio pensiero, quello del “buon costume”. Limitazioni ulteriori possono aggiungersi, ma – come è scritto nel più noto saggio sul tema – «sono solo quelle che in via di stretta interpretazione ed esplicazione delle formule possano dirsi sancite dalla carta costituzionale» (così Carlo Esposito nel lontano 1958). Anche la Corte costituzionale, nella sua pur oscillante giurisprudenza, non ha mai avuto dubbi nel ritenere che le limitazioni alla libertà di manifestare il proprio pensiero «devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali» (così la sentenza 9 del 1965). In questa prospettiva il principale limite alla libertà di opinione è legata alla necessità di tutelare un principio altrettanto – se non ancor più – importante per il nostro sistema di valori costituzionali: la dignità della persona. Da qui l’illegittimità di tutte quelle espressioni di natura offensiva dell’onore altrui e la sicura legittimità – anzi necessarietà – della previsione dei reati di diffamazione e ingiuria posti a protezione di un valore costituzionale fondamentale.
Vi sono poi altre figure più controverse. Quando il reato di vilipendio che può essere fatto valere come limite alle opinioni espresse è posto per tutelare non la persona, ma le istituzioni repubblicane o i simboli nazionali (la bandiera). Figure a sé, infine, sono quelle collegate alla disciplina del segreto: in alcuni specifici casi il limite alla libera manifestazione del pensiero può trovare fondamento dalla necessità di tutelare gli interessi “supremi” della nazione.
Secondo molti a quest’elenco è necessario aggiungere altri due tipi di limitazioni, legate alla ripugnanza dell’opinione per la coscienza democratica, ovvero alla tutela dell’ordine pubblico. Nel primo caso si ritiene legittimo perseguire chi incita all’odio razziale, al genocidio, al femminicidio, chi inneggia a ideologie contrarie all’ordinamento democratico (l’apologia di fascismo). In altri ordinamenti – è noto – è reato sostenere le aberranti tesi dei negazionisti. Nel secondo caso rientrano le varie ipotesi di istigazione a delinquere. È noto che questi due ultimi casi sono assai contestati. In molti ritengono che non si debbano perseguire penalmente né le opinioni ripugnanti, né le opinioni che si pongano in contrasto con un valore costituzionalmente assai indeterminato com’è quello di ordine pubblico. Non la punizione, ma la convinzione, l’educazione, il dibattito possono “reprimere” e isolare le opinioni ignobili o quelle pericolose (sempre che – come subito vedremo – le parole pronunciate non si traducano in azione ovvero commissione diretta del fatto-reato). D’altronde a fronte di un troppo vago precetto costituzionale da tutelare (“ripugnanza” democratica dell’opinione o tutela dell’ordine pubblico) sembra doveroso far sempre prevalere il principio — ben definito in costituzione all’articolo 21 — della libertà di manifestare il proprio pensiero.
Questo in sintesi il quadro dei limiti alla libertà del pensiero. Può utilmente aggiungersi che le diverse ipotesi non si pongono tutte su un medesimo piano: godono, invece, di un diverso grado di intensità a seconda del principio costituzionale che ciascuna di esse tutela. Mentre massima dev’essere la protezione fornita alle offese all’onore altrui, poiché garantiscono il principio fondamentale della dignità della persona, più bilanciata deve essere quella giustificata dalla necessità di protezione di principi costituzionali meno definiti e che potranno rivelarsi spesso recessivi di fronte al principio di libertà del pensiero.
Il caso dell’istigazione rientra tra questi ultimi. Secondo la giurisprudenza sia ordinaria (ad esempio, Cassazione n. 40552 del 2009) sia costituzionale (ad esempio la sentenza n. 65 del 1970) non basta che l’istigazione sia formulata, poiché in tal caso si avrebbe una legittima manifestazione del pensiero, ciò che appare decisivo è che essa, per le sue modalità, risulti essere stata concretamente idonea a provocare la violazione delle norme penali e la commissione dei delitti. Ciò vuol dire che deve essere dimostrata la diretta connessione tra le parole pronunciate e le azioni criminose conseguenti.
A me sembra che questo sia il punto decisivo per orientarsi nella controversa vicenda Erri De Luca. Il merito delle opinioni espresse dallo scrittore non possono essere sindacate da nessun giudice, in nessun tribunale, coperte come sono da una garanzia costituzionale fondamentale che assicura la libertà di manifestare qualunque opinione (anche la più radicale o – al limite – sovversiva).
Nel caso di specie, inoltre, nessuna offesa alle persone può essere fatta valere, tant’è che non si tratta certo di un processo per diffamazione o ingiuria, né sono in discussione gli altri casi in cui può esservi una più o meno legittima limitazione delle opinioni (vilipendio alle istituzioni, violazione di un segreto di stato). Chi volesse condannare lo scrittore napoletano ha una sola via: dovrebbe dimostrare la connessione tra le parole pronunciate e le azioni criminose perpetrate in conseguenza immediata e diretta dell’intervista. Una via impervia, una prova diabolica. Non suffragata dai fatti conosciuti.
Infatti, è noto che già da tempo, ben prima dell’intervista incriminata, azioni di taglio delle reti di protezione dei cantieri e altre azioni penalmente rilevanti sono state poste in essere in Val di Susa come forme di protesta estrema. Azioni condannabili, ma certo non riconducibili all’istigazione di De Luca, il quale ha espresso la sua discutibile opinione con riferimento proprio a tali fatti. Dopo l’intervista altre azioni analoghe sono state compiute. Siamo dunque in presenza di soggetti che hanno adottato da tempo modalità di opposizione politica che prevede anche azioni di violazione di leggi ritenute ingiuste. Un’enorme questione che riguarda le forme legittime del conflitto in una democrazia costituzionale. Una discussione che dovrebbe essere affrontata con serietà, in primo luogo tanto dal movimento No Tav, quanto dalle istituzioni democratiche. Ma ciò con l’intervista al Huffington post non c’entra nulla. Per questo Erri De Luca dovrebbe essere assolto, mentre la politica dovrebbe tornare ad incontrarsi in Val di Susa.
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