Zygmunt Bauman: «Vendetta contro la libertà d’opinione Così le città diventano polveriere»

Zygmunt Bauman: «Vendetta contro la libertà d’opinione Così le città diventano polveriere»

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Superficialità del multiculturalismo, sottomissione alle leggi di mercato che riducono gli ultimi a «scarti» del progresso socio-tecnologico, prossimità e umiliazione dell’altro da sé sono i meccanismi fondamentali colti nei fatti di Parigi dallo sguardo verticale di Zygmunt Bauman, il filosofo e sociologo polacco di origini ebraiche grande interprete della modernità che disarticola le costruzioni complesse del nostro vivere in un continuum «liquido» e sfuggente. «L’assassinio politico è una forma di violenza legata a doppio filo agli antagonismi umani, difficile da sradicare — dice Bauman al Corriere —. Negli ultimi due secoli ha preso di mira personaggi quali Jean Jaurès, Aristide Briand, Abraham Lincoln, l’arciduca Francesco Ferdinando… molto distanti tra loro per ruolo e ideologia ma sempre percepiti come fonti di potere, da eliminare per rendere possibili svolte epocali».
In cosa si distingue la violenza politica rivolta contro «Charlie Hebdo»?
«Va registrata una prima differenza con gli attentati dell’11 settembre 2001, diretti non contro personaggi noti o ritenuti responsabili di crimini da punire, ma contro simboli del potere economico e militare, il World Trade Center e il Pentagono americano. Puntando su obiettivi ad alto valore mediatico, l’assalto del 7 gennaio 2015 riflette invece la coscienza pubblica di un progressivo scivolamento del potere effettivo dalle sedi tradizionali verso i centri che creano opinioni. Inoltre l’assalto al giornale è nato come atto di vendetta “personale”, secondo il trend inaugurato dall’Ayatollah Khomeini con la fatwa emanata nel 1989 contro Salman Rushdie per i suoi Versi Satanici . Se l’11 settembre “spersonalizzava” la violenza politica, mirando a fare il maggior numero possibile di vittime e a ottenere il massimo dell’attenzione, il 7 gennaio risponde alla de-istituzionalizzazione e individualizzazione della condizione umana nelle nostre società. In questo contesto i soggetti che costruiscono e distribuiscono informazione diventano i protagonisti del dramma della convivenza».
Convivenza resa problematica dal senso di alienazione che in società così frammentate spesso vivono le minoranze etnico-religiose. Come s’inserisce il rapporto con l’Islam in questo meccanismo? La ferita al cuore di Parigi, città-paradigma dei valori occidentali, è un capitolo della secolare guerra tra civiltà e religioni?
«Le letture di questi giorni incentrate sull’antagonismo tra Cristianesimo e Islam contengono una parte di verità, non possono abbracciare la totalità di un fenomeno articolato. L’elemento decisivo per comprendere le nuove dinamiche va cercato a mio parere in un mondo segnato dalle diaspore, dove lo straniero un tempo distante è diventato il vicino con il quale condividiamo strade, strutture pubbliche, scuole, luoghi di lavoro. Una prossimità destabilizzante, poiché dall’altro non sappiamo cosa aspettarci e, diversamente da quanto accade nella dimensione virtuale e “social”, non ci è possibile rimuovere o aggirare con un click differenze fin troppo reali, incompatibili con il nostro punto di vista. Le risposte che abbiamo elaborato finora si sono rivelate fallimentari. Nelle nostre vite ha messo radici un multiculturalismo superficiale, una fascinazione per la diversità che si esprime nel gusto per i cibi etnici o per i festival del weekend, semplici flirt con ciò che appare esotico. Declinazione del consumismo globale al tempo di Facebook. Un sistema che riconosce la legittimità di culture diverse dalla nostra, ma ignora o rifiuta quanto vi è di sacro e non negoziabile in tali culture. Questa mancanza di autentico rispetto risulta profondamente umiliante».
Un’umiliazione che può diventare dinamite sociale?
«Appartiene alla natura dell’offesa cercare una forma di assoluzione o risarcimento. Quando ciò accade scopriamo che i confini tra chi umilia e chi è umiliato si sovrappongono a quelli tra privilegiati e sottomessi. Viviamo su un terreno minato, dov’è impossibile prevedere le deflagrazioni».
In tal senso il discusso romanzo di Michel Houellebecq uscito in Francia nel giorno dell’attentato, «Soumission» (Sottomissione), coglie nel segno?
« Soumission è la seconda grande distopia di Houellebecq dopo La possibilità di un’isola . In questo libro l’islamico Mohammed Ben Abbes vince le elezioni francesi del 2022 testa a testa con Marine Le Pen, una coppia per nulla casuale, profetica se non riusciremo a invertire il corso di una storia che ha tradito le speranze di libertà e uguaglianza riposte nella democrazia. In tutta Europa assistiamo all’ascesa del sentimento antidemocratico, a una secessione di massa dei nuovi plebei che confluiscono verso gli opposti estremi dello spettro politico, attratti dalle promesse dell’autocrazia. La parola del Profeta diventa così un vessillo dispiegato per chiamare a raccolta gli umiliati, gli emarginati, gli esclusi, affamati di vendetta».
Come rispondere? Lei sostiene che la forza della morale risiede nella consapevole libertà dell’«io», non nel potere coercitivo di un «noi» impersonale. Parte da qui il no al fondamentalismo?
«Nella sua prima Esortazione Apostolica (la Evangelii Gaudium del 2013, ndr ) papa Francesco ha messo a fuoco la grande sottomissione, la nostra resa a un capitalismo licenzioso, sfrenato, cieco all’umana miseria. Non troverà risposta più profonda ed esaustiva a questa domanda. Il Pontefice ha richiamato quella cultura dello “scarto” che va oltre lo sfruttamento e bandisce intere popolazioni dai progressi del welfare e della tecnica, masse che non sono più semplicemente oppresse o marginalizzate, bensì rimosse dalla comunità, “fuori” dal corpo sociale. Questo non può essere accettato, a questo dobbiamo opporci».
Maria Serena Natale


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