ROMA . È il Jobs act dei dualismi. Anziché appianare divergenze, allarga i fossati. Invece di colmare le distanze, acuisce le differenze. Insomma il contrario esatto dell’obiettivo di partenza. Basta leggere i primi due decreti attuativi per rendersene conto. Lavoratori post e pre 2015, giovani e anziani, nuovi e vecchi. Settore pubblico e privato. Aspi e Discoll, ammortizzatori per i garantiti e per i precari. Aziende grandi e aziende piccole. E ancora aziende grandi ed ex aziende piccole. Una babele di discrasie.
Gli assunti del 2015 lo sperimenteranno a breve, sia giovani che costretti a cambiare lavoro e quindi contratto. Avranno meno tutele dei colleghi di scrivania, zero articolo 18, indennizzi al posto della reintegra (e anche più bassi degli attuali, specie se il licenziamento avviene nei primi anni). Tutto da dimostrare il teorema renziano: meno cocopro, più contratti a tutele crescenti. Intanto perché i contratti precari (per ora) non sono stati cancellati. E ancora: statali contro dipendenti privati. I primi esclusi dalla riforma, anche se Renzi dice che se ne riparlerà a febbraio, «sarà il Parlamento a pronunciarsi », quando si discuterà la riforma Madia della Pubblica amministrazione. Aspi contro Discoll: la prima è l’assicurazione riservata ai lavoratori dipendenti che restano disoccupati, fino a 24 mesi, il secondo è l’assegno per i precari, fino a 6 mesi. Aziende grandi contro piccole: sotto i 15 dipendenti la rein- tegra non c’è mai stata e ora diminuisce anche l’indennizzo, in ogni caso sempre inferiore a quello delle big (massimo 6 mensilità contro 24). Infine il paradosso dei paradossi: le piccole imprese sotto i 15 che assumono e diventano grandi mantengono il regime delle piccole, dunque niente articolo 18 e mini indennizzo. Dualismi. Spaccature.
«Sa cosa vedo io? Un governo nel caos», commenta Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera. «Il contratto a tutele crescenti su base annua riguarderà circa un milione di lavoratori, ciò significa che occorreranno 15 anni» per avere un mercato del lavoro unico, con gli stessi diritti (pochi) per tutti. Grillo sul blog lo definisce un contratto a «fregature crescenti». «Tra qualche giorno iniziano i saldi e il governo quest’anno propone la svendita del diritto al lavoro », scrive Laura Castelli, deputata M5S, in un post. «Sei stato licenziato senza giusta causa? Non ti preoccupare, ti verrà dato un piccolo indennizzo, e così potremo fare finta di nulla. Un ricatto morale che fa leva sulla fragilità di chi oggi non si può permettere di perdere il lavoro, di chi è costretto ad adeguarsi al detto ‘pochi, maledetti e subito’».
«Si potevano raccogliere le firme di centinaia di parlamentari per evitare che il Jobs act contenesse le norme sui licenziamenti facili e sul demansionamento prima di arrivare alla discussione alle Camere», scrive Pippo Civati, deputato pd, sul suo blog. «E invece si è preferito trattare, poi mediare, poi posizionarsi, poi condividere con preoccupazione, poi preoccuparsi per la condivisione ». Civati non risparmia una stoccata alla «cosiddetta» minoranza pd: «Alterna giudizi che cambiano di ora in ora sul Jobs act. Chi ha votato a favore parla di ‘lesione costituzionale’. Chi ha prodotto la mediazione parla di ‘eccesso di delega’. Pare che sia nata una nuova corrente, quella dei trattativisti». Sul fronte sindacale la Cgil, con Michele Gentile, responsabile Settori pubblici, ricorda che «nella Pubblica amministrazione si può già licenziare per motivi disciplinari e, come dimostra il caso delle Province, per motivi economici o organizzativi si può entrare in mobilità ». Mentre Benedetto Attili, segretario generale della Uil Pa, ribatte a Sacconi che «i dipendenti pubblici hanno da anni contratti e retribuzioni bloccati, il trattamento pensionistico delle donne diverso dal privato». E che «se vogliamo l’equiparazione, rendiamola a 360 gradi».