Camusso, lei ha parlato di “un abominio” nei confronti dei lavoratori a proposito della nuova formulazione dell’articolo 18. Perché?
«Perché il presupposto a queste norme è che i lavoratori abbiano sempre torto e le imprese sempre ragione. Eppure, come è noto, la visione in bianco e nero non funziona. Lo dimostra proprio il “caso Ilva” _: ma si può affidare la politica economica a chi riduce le aziende in quello stato? E poi, tutte le vertenze, che secondo il premier si sarebbero risolte grazie alla bacchetta magica della “fatina governo” mentre è grazie alla lotta dei lavoratori che hanno trovato uno sbocco, non hanno visto alcuna nuova iniziativa imprenditoriale italiana. Gli industriali italiani non investono più, non innovano, a parte coloro che puntano tutto sull’export. E infatti dalle crisi si esce spesso con progetti di imprenditori stranieri. Da noi mancano gli imprenditori capaci di rischiare in proprio, eppure il governo ha delegato a loro le scelte sul futuro dello sviluppo. È una logica che mi fa impressione. Ripeto: ma cosa gli hanno fatto i lavoratori a Renzi?».
Provi lei a dare una risposta.
«Guardi, io penso che in questa scelta ci sia l’incapacità di interpretare le ragioni profonde della crisi strutturale italiana. Che non è figlia del mercato del lavoro bensì di un tasso di investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo, che è letteralmente crollato. Lo diciamo da anni e da anni chiediamo un credito di imposta per questo tipo di investimenti. È vero, qualcosa è stato fatto, ma decisamente troppo poco».
Torniamo al Jobs act. Era prevista la possibilità che le imprese, attraverso l’“opting out”, evitassero sempre il reintegro del lavoratore. Questa ipotesi è rimasta sulla carta. Non è un passo avanti?
«Certo che con quella ipotesi il decreto sarebbe stato ancora peggio. Così come se fosse stato introdotto il principio dello “scarso rendimento” _ come motivo di licenziamento economico. Ma quando il premier Renzi dice che non c’era bisogno di introdurre anche quel principio, ribadisce implicitamente che tutto è già possibile, arriva addirittura a suggerire la strada per licenziare. Con la stessa conciliazione tra lavoratore e datore di lavoro senza alcuna forma di assistenza non siamo molto lontani dall’opting out. Un lavoratore licenziato si troverà sotto una fortissima pressione perché rinunci alla via giudiziaria a tutela di un suo diritto. Tutto viene affidato all’imprenditore che per definizione è superiore. Questo è il punto».
Insomma lei è convinta che quello di Renzi sia un “governo delle imprese?”
«In Europa la grande questione della politica è come riappropriarsi del governo dell’economia. È un tema decisivo, soprattutto per la sinistra. Il nostro governo ha scelto di delegare le imprese. Una sorta di abdicazione, di rinuncia a individuare un proprio modello di sviluppo. E infatti il nostro governo non fa politica industriale ma distribuisce risorse a pioggia. Arriva al punto che le imprese prima prendono gli incentivi per le assunzioni, poi licenziano e ci guadagnano pure».
Come fa a dire che la partita sul Jobs act non è finita quan- do i decreti sono stati approvati e i pareri delle Commissioni parlamentari sono solo consultivi? Quali armi ha in mano il sindacato?
«Ad esempio solleciteremo le Commissioni parlamentari. Renzi, non so se l’abbia detto solo per ragioni diplomatiche, ha sostenuto che terrà conto delle osservazioni che dovessero arrivare dal Parlamento. Sinceramente non so dire se sia bene o un male ma intanto il Parlamento si dovrà esprimere».
Non è molto il pressing sulle Commissioni…
«Bisogna avere rispetto per le procedure istituzionali. Ma non mancheranno la lotta, la contrattazione, i ricorsi giudiziari».
Pensa a un altro sciopero generale?
«Vedremo. Non posso anticipare nulla ma non escludo nulla. Valuteremo con la Uil e coinvolgeremo anche la Cisl».
Che effetto avrà l’applicazione delle nuove norme anche ai licenziamenti collettivi?
«Il governo aveva promesso il superamento del dualismo ma con questo decreto non fa altro che moltiplicare le differenze tra lavoratori e lo fa anche nella stessa impresa di appartenenza. Si potranno ora violare i criteri di legge sui licenziamenti collettivi mascherando le discriminazioni e rischiando solo una “multa”. Un ulteriore colpo basso ai diritti collettivi e alla certezza del diritto. La norma, poi, deresponsabilizzerà le imprese dai processi di riconversione e ricollocazione, anche perché la delega mette a carico della fiscalità generale il costo delle politiche attive per licenziamenti illegittimi o ingiustificati ».
Con il contratto a tutele crescenti e gli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato il governo punta ad estendere questi contratti. Non è quello che avevate sempre chiesto?
«Questo contratto a tutele crescenti è un grande bluff. È solo una monetizzazione crescente: “Ti licenzio anche ingiustamente, ti pago pure in modo crescente, quindi adesso taci”, sembra voler dire. Di fatto è l’abolizione dei contratti a tempo indeterminato. Il contratto a tutele crescenti non ha un punto d’arrivo nel quale la situazione si stabilizza. L’Italia sarà così l’unico Paese nel quale la palla non passa mai dalla parte dei lavoratori. Il presunto grande salto nella modernità si traduce nella monetizzazione della dignità del lavoratore ».
Perché ha twittato gli auguri di buon Natale con l’immagine di un gufo?
«Una civetta, non un gufo! Un regalo natalizio… mi è piaciuta molto. Poi, come è noto, le civette portano fortuna».