L’israeliano Netanyahu gela americani e russi: «No ai confini del ‘67»

L’israeliano Netanyahu gela americani e russi: «No ai confini del ‘67»

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ROMA È stato il Medio Oriente — lo stallo del processo di pace, l’aumento delle tensioni tra Israele e Palestina e il rischio di una nuova esplosione di violenza — a occupare gran parte dei colloqui romani di ieri sera tra il segretario di Stato americano, John Kerry, e il ministro degli Esteri russo, Serghej Lavrov. Per l’inviato di Washington è stato l’avvio di una offensiva diplomatica che stamane lo vedrà impegnato negli incontri con il presidente del Consiglio Matteo Renzi e soprattutto con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. In serata Kerry volerà a Parigi, dove vedrà i ministri degli Esteri francese, tedesco e l’Alto Rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini. Mentre domani a Londra incontrerà il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat e una delegazione della Lega Araba.
All’origine dell’attivismo americano è la preoccupazione di voler disinnescare il potenziale conflitto che una serie di risoluzioni circolate in queste settimane alle Nazioni Unite rischiano di far deflagrare. È stata la Giordania a farsi promotrice di un testo che chiede a Israele di ritirarsi entro due anni sui confini del 1967. I palestinesi presenteranno mercoledì la bozza di risoluzione all’Onu in cui chiedono la fine dell’occupazione e il ritiro da tutti i territori occupati nella Guerra dei sei giorni. Un’altra bozza di risoluzione, questa sponsorizzata da Francia, Gran Bretagna e Germania, definisce invece un calendario di ritiro vincolante ma non specifico. Contro questo scenario si è scagliato ieri Netanyahu, annunciando che farà di tutto per impedirlo: «Dirò a entrambi che Israele è un bastione solitario contro l’ondata crescente dell’estremismo islamico. Questo è un tentativo di costringerci a un ritiro entro due anni sui confini del 1967. Ma ciò significherebbe portare gli estremisti islamici alle porte di Tel Aviv e nel cuore di Gerusalemme: sia chiaro che non lo permetteremo». Israele non nasconde di aspettarsi che, come spesso è accaduto in passato, gli Stati Uniti usino il veto per bloccare l’eventuale pronunciamento del Consiglio di Sicurezza. Ma questa volta non si fa troppe illusioni. Lo stesso ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha detto ieri che Washington «non è molto incline a far ricorso al veto». In verità gli Usa sembrano piuttosto voler attendere gli eventi, cercando di disinnescare le tensioni e convincere Giordania ed europei ad aspettare le elezioni israeliane di marzo, prima di agire all’Onu.
«Credo che il Medio Oriente sia il tema cruciale e occorre impedire che la situazione peggiori ulteriormente. I nostri Paesi devono lavorare insieme per evitarlo», ha detto Serghej Lavrov al suo arrivo a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore americano a Roma e sede dei colloqui. «Kerry — ha detto una fonte del Dipartimento di Stato — è a Roma per ascoltare e sollecitare gli attori e quanti hanno influenza nella regione, impegnandosi quanto più possibile a lavorare verso una prospettiva comune». Il segretario di Stato e l’inviato di Mosca hanno naturalmente parlato anche di Ucraina. Lavrov ha espresso l’irritazione di Mosca, di fronte al voto con cui il Congresso Usa ha autorizzato nuove sanzioni e una fornitura d’armi al governo di Kiev. La decisione non è vincolante per Obama, che può scegliere di non renderla esecutiva. Ma crea un nuovo elemento di tensione, proprio nel momento in cui l’Amministrazione punta a una de-escalation della crisi, spingendo per l’applicazione degli accordi di Minsk. Tanto più che la tregua, annunciata martedì tra il governo e i separatisti russi, è stata rispettata.
Paolo Valentino


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