«La mia Germania vi fa paura? Siamo noi a temere il futuro»

«La mia Germania vi fa paura? Siamo noi a temere il futuro»

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La Germania fa paura? No: è la Germania ad aver paura. Edgar Reitz, classe 1932, è uno dei maestri del cinema tedesco. Il regista che nella saga di « Heimat» ha raccontato il suo Paese, da metà 800 al 2000, attraverso la lente di un remoto villaggio dell’Hunsrück dove egli è cresciuto (per poi spostare la cinepresa a Monaco di Baviera e Berlino), rovescia il binocolo degli analisti. «La Germania ha paura del futuro. È straordinario come i miei connazionali, al profilarsi di una crisi, reagiscano con timore maggiore rispetto ad altre nazioni europee. Dopo il terremoto di Fukushima, fummo noi a essere subito presi dal panico, e spegnemmo le nostre centrali nucleari. Se si verificano atti di guerra in Ucraina, nel mio Paese si risvegliano antichi incubi».
Questa paura ha un riflesso nell’attuale crisi economica?
«La paura tedesca fa sì che in una situazione di crisi, come quella economica (che non deriva da noi o dai Paesi vicini ma dalle dinamiche del capitalismo e dalle banche), siano ricercate misure di stabilizzazione e austerity. Non esiste più una “utopia tedesca”. Tutti sanno che ogni utopia del XX secolo è tramontata. Non dobbiamo dimenticare che i tedeschi possono sentirsi ragionevolmente al sicuro nel loro territorio solo da un quarto di secolo, dalla caduta del Muro; vogliono preservare tutto ciò con la pace. Non c’è Paese in cui il desiderio di pace sia superiore a quello della Germania».
Eppure l’Europa più povera teme il potere economico tedesco.
«Sono sorpreso che siamo temuti. Noi percepiamo l’esatto contrario. Siamo sulla difensiva, cerchiamo solo di non lasciarci destabilizzare dall’esterno».
Il passato nazionalsocialista ha un ruolo in tutto questo?
«La memoria di un popolo è molto lunga. Nessuno oserebbe parlare ora di un Reich millenario. Siamo già felici di non perdere il nostro lavoro domani. Quando a 20 anni cominciai a viaggiare, in quanto tedesco, venivo considerato come un nazista. Non era d’aiuto dire che all’epoca ero un bambino. La mia generazione ha fatto qualunque cosa per porre fine all’eredità nazista. La Germania oggi è un Paese democratico che non ha soppiantato la sua storia. Non è solo Hitler, di cui dobbiamo vergognarci ancora, ma anche gli eccessi dell’Impero e i secoli di feudalesimo, ad aver gettato sfiducia. Insieme con Weimar, l’unica rivoluzione democratica del 1848 è fallita, dunque non abbiamo alcun mito positivo dalla fondazione dello Stato, come lo ebbero i francesi».
«Heimat», il suo film in quattro cicli e 64 ore, è una parola intraducibile dai molti significati: nostalgia, luogo natio, patria. Come si è evoluto nel tempo il concetto di patria?
«Il rapporto con lo Stato non è mai stato positivo in Germania, la gente non ha dimenticato che ha recato nei secoli disonore e disgrazie. Oggi differenziamo i concetti di patria e Stato. La patria è la terra materna dell’infanzia e la terra che lega le persone al territorio; lo Stato è un costrutto astratto, una terra “paterna”, campo d’azione dei politici e delle autorità. Nessuno di noi nutre amore per lo Stato, al contrario l’amore per la patria diverrà sempre più importante. Un crescente patriottismo regionale significa per molti tedeschi una nuova identità».
Che impatto ebbe su di lei la vita «bohémienne» di Monaco, quando dalla provincia arrivò nel 1952?
«Ero ragazzo, Monaco mostrava le ferite della guerra, rovine e case improvvisate appartenevano allo scenario quotidiano. La leggenda di città delle arti e dell’allegra vita notturna risaliva al periodo precedente la Prima guerra mondiale. Dopo due settimane mi resi conto di aver inseguito un’illusione. Ma la mia generazione, negli anni 60, riuscì a ridare slancio culturale a Monaco. Berlino, a quel tempo dietro la Cortina di ferro, era il luogo dei nostri sogni».
Con l’ultimo capitolo della sua saga, «Die andere Heimat», ha girato la ruota della Storia all’indietro, nell’800.
«È un film indipendente dalla trilogia. Da 30 anni ai miei film metto la parola “Heimat” nel titolo, è un trucco con cui tendo la mano agli “heimatiani”, in realtà tratto temi molto diversi fra loro. Non c’è bisogno di vedere i capitoli precedenti per comprenderlo. Attraverso due fratelli racconto l’immigrazione, il desiderio di vivere in una società migliore. Volevo richiamare alla memoria di noi europei che circa 150 anni fa eravamo disperati e miserabili proprio come le persone che dall’Africa, dall’Asia o dall’Est si rivolgono a noi per condurre una vita libera. Ovunque si formi un divario economico, la gente cercherà l’uguaglianza, un processo che richiederà molto tempo e causerà nuove crisi fino al costituirsi di una sorta di unità planetaria. Rispetto alla trilogia ha una durata di soli 220 minuti, un cortometraggio al confronto. Nonostante il grande successo dei miei film in Italia, non ho ancora una distribuzione nelle sale. Amo il vostro Paese, il rispetto che avete per le arti. Non a caso “Heimat 2”, che parla di giovani artisti turbolenti, individualisti e dalla vita promiscua, in Germania fu visto con una certa diffidenza mentre in Italia ebbe molto più successo. La Mostra di Venezia nel 1967 premiò il mio debutto. Mi sento vicino e familiare ai vostri grandi maestri, Rossellini, De Sica, Visconti, che a differenza dei registi tedeschi incardinano le storie in un luogo preciso, come ho fatto io in “Heimat”. Spesso spettatori di terre lontane mi hanno detto che avevo narrato esattamente la loro storia. All’inizio ero molto stupito, perché racconto cose personali che riguardano miei ricordi ed esperienze. Il segreto sembra essere che quanto più veniamo compresi, tanto meglio capiamo noi stessi».

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